Note critiche per un dibattito sugli usi civici e i beni comuni. Per l’autogestione

Vincenzo Talerico

INTRODUZIONE

Nell’attuale dibattito attorno alle tematiche degli usi civici e dei beni comuni, in alcuni casi abbinati al concetto di autogestione, spesso troviamo da una parte definizioni giuridiche “in corso di ridefinizione” e interpretazioni le più svariate, dall’altra norme che hanno eliminato i diritti di cui si parla e l’uso strumentale di alcune categorie concettuali rese all’uopo “vaghe”. Mi sembra, quindi, opportuno approfondire le tematiche e lo stesso concetto di usi civici e quelli ad esso collaterali, verificandone gli aspetti che storicamente hanno modificato le condizioni reali che questi concetti sottendono.

Non c’è, infatti, solo un aspetto etimologico[1], ma soprattutto storico da affrontare per chiarire questi concetti. Anche Fabrizio Marinelli, nel suo saggio Gli usi civici [2], ritiene che «una preliminare notazione deve essere riservata alla terminologia. L’espressione usi civici è infatti riassuntiva di una serie di fenomeni profondamente complessi e diversificati, e che solo per comodità definitoria viene utilizzata in senso generale ed ampiamente comprensivo»[3].

Gli usi civici, quale pratica di godimento dei beni demaniali esercitata dalle comunità — presente in modo parziale fin da epoca preromana e consolidatasi nel Medioevo —, vengono definitivamente aboliti col regio decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751, trasformato in legge 16 giugno 1927, n. 1766. Il fascismo porta a compimento quanto già da prima dell’Unità d’Italia stava avvenendo con l’usurpazione (“l’affrancamento”) dei terreni demaniali.

Giuseppe Bonaparte, nuovo re di Napoli, nell’abolire “la feudalità con tutte le sue attribuzioni” e reintegrare alla “sovranità” le giurisdizioni baronali, elimina anche gli antichi diritti che le popolazioni locali avevano sui feudi e sui demani. Con le cosiddette “leggi eversive della feudalità” (1806-1808) iniziano i processi di eliminazione delle feudalità, i cui terreni, assieme ai beni ecclesiastici, vengono concessi in allodio di pochi nuovi padroni. Assieme ai terreni dei feudi e della Chiesa, anche i demani, che in molte situazioni si sovrapponevano o confondevano, esercitandosi su ambedue gli stessi diritti di usi civici[4], subirono le stesse sorti, con “chiudenti” e “difese”. Con la proclamazione di tutte una serie di nuove leggi di tutti gli Stati preunitari— esplicativo è l’editto delle chiudenti, emanato il 6 ottobre 1820 dal re di Sardegna Vittorio Emanuele I, col quale, con la scusa di favorire «la modernizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura locale» e in linea con le nuove riforme, autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati demani ad uso collettivo — si è proceduto alla privatizzazione di questi demani.

L’affermazione della proprietà privata con la conseguente eliminazione degli usi civici modifica la situazione possessoria dei terreni. Così descrive Vincenzo Padula, nel 1864, la situazione dei terreni e delle usurpazioni in Calabria, situazione che è molto simile a quelle di gran parte del resto d’Italia:

«Qual è dunque la storia dei terreni in Calabria?

Dalla fondazione della napoletana monarchia a tutto il secolo passato i terreni furono feudali, ecclesiastici, demaniali ed allodiali. Gli allodiali erano pochi, pochi i grandi proprietarii, oneste le fortune, onestissimi i padroni, e l’aurea mediocrità di Orazio conveniva all’une ed agli altri. I Re, i Baroni, e le Chiese, parte per generosità, parte per bisogno, ora cedettero, ora col peso di canoni annuali diedero ai comuni una porzione dei loro terreni, e così nacquero i beni che furono detti della università, o beni comunali. Perlustrando a quei tempi i nostri paesi tu avresti trovato delle terre un terzo appartenente al Barone del luogo, un terzo alle corporazioni religiose, un terzo al comune, e qua e là tra queste tre specie di fondi il campicello e il vigneto allodiale, cui tale confessavano il governo migliore e la coltura meglio intesa. Allora il Dio Termine[5] era divinità formidabile: potente il principe del luogo, potente il clero; e l’uno e l’altro ne rendeano inviolabile il culto. E il popolo nato con la zappa? Il popolo nato con la zappa non era libero, e si comprende, non avea istruzione, non sicuro l’onore, non garentita la libertà individuale; ma possedeva in quella vece ciò che tutti gli statuti non han potuto ancor dare, lo stomaco pieno. Coltivava i terreni ora del comune, ora del principe, ora della chiesa; e ciò che pagava non solo era una miseria, un moggio di grano per ogni moggiata di terra, e spesso meno; ma la contribuzione era stabilita per una sola specie di coltura; vale a dire, se il terreno era seminatorio, il contadino mi dava un moggio di frumento dopo aver trebbiato; ma non era obbligato a darmi più nulla per tutto altro che vi avesse o seminato o piantato dopo la trebbiatura. Più. Godeva degli usi civici, e nei marroneti e nei vigneti, e via discorrendo, succedeva dopo la raccolta delle castagne e la vendemmia ciò che dicevasi sbarro.

Il popolo v’introduceva i suoi animali, vi andava per erbe e frasche e nei geli di inverno, stagione nella quale, come dice un proverbio calabrese, chi ebbe pane morí, e visse chi ebbe fuoco, possedeva non solo fuoco, ma pane. È vero che il Barone ne carezzava la moglie, è vero che l’arciprete e il monaco succolento faceano gli occhi dolci alla figlia: tutto il male era lí, ma si mangiava.
….
Questo stato di cose cessò con la occupazione francese e con le leggi del 1806 eversive della feudalità. … Agli antichi Baroni, il cui genio per le libidini e pel sangue era temprato dall’educazione, dall’uso del potere, dal sentimento del decoro, succedettero, dove più, dove meno, pochi prepotenti per paese, i quali abusarono della ricchezza e del potere, perché nuovi al potere ed alla ricchezza volevano sperimentarne l’impero, e perché, conscii di loro bassi principii, si studiavano a cancellarne la memoria in sé medesimi e negli altri con l’uso brutale della forza. Così il feudalismo fulminato dalle leggi rimase nel fatto, e più terribile, più corruttore, più odiato di prima: il Dio Termine ebbe il suo Renan, e fu precipitato dal piedistallo; s’invasero i terreni comunali, s’invasero i pochi beni rimasti alle Chiese, ed uomini armati fino ai denti col nome di Guardiani si posero a custodia dei male acquistati terreni.

… Il popolo nato con la zappa non ebbe più la scelta tra terreni, comunali, feudali, ed ecclesiastici, ricevette la legge e non l’impose, pagò per ogni moggiata di terreno tre, quattro, e cinque moggi di grano, il proprietario gli disse se anche pianti orígano nel mio fondo, ne voglio parte; la sua moglie seguí ad essere accarezzata, la figlia ad essere guardata con occhi dolci; ma le corna non furono più di oro; il principe pagava, l’arciprete e il monaco succulento pagavano; i nuovi venuti non pagarono che con busse, e il popolo restò digiuno.  I comuni spogliati, al vedersi sommessi alla imposta fondiaria per vasti territori che non più possedevano, reclamarono. Ma chi potea far dritto a quei reclami? Usurpatori erano i Sindaci, usurpatori i Decurioni, e de’ titoli di proprietà posseduti dai comuni essi falsarono una parte, involarono un’altra, e parecchi che si trovavano in deposito negli uffici d’Intendenza sparirono ancora misteriosamente.

Al 1848 l’ira popolare fino allora compressa finalmente scoppiò. Le popolazioni guidate dai più vecchi contadini ch’ivano innanzi portando in mano Crocefissi e Madonne irruppero nei terreni usurpati: illegale era quel procedere, e niuno il nega; si commisero atti di vandalismo, ed è verissimo; ma un dritto sacro ed imprescrittibile era in fondo a quel movimento, ed anche questo è innegabile. Che fecero gli usurpatori? Si giovarono della reazione borbonica ed accusarono come Comunisti e discepoli di Fourier i nostri poveri tangheri che si credevano trasportati nella valle degli incantesimi, quando il Giudice gravemente gl’interrogava: «Siete voi socialisti?».»[6]

Questo processo di privatizzazione dei terreni collettivi prosegue anche dopo l’Unità d’Italia, non solo nel Sud e nel Centro, ma in tutta la Penisola. Processo che non è stato lineare e senza contrasti, soprattutto nel Sud d’Italia. Ma le rivolte, che in alcuni casi hanno assunto carattere di insurrezione (vedi il caso di Matera dove gli insorti hanno incendiato l’archivio comunale dov’erano conservati i titoli di proprietà o possessori — anticipando quanto Malatesta, Cafiero e gli altri della “Banda del Matese” fecero a Letino, come “propaganda del fatto” per sostenere il programma anarchico), sono state assimilate al brigantaggio e questo, come se fosse stato un unico movimento, alla contrapposizione all’Unità d’Italia[7]. Si è trattato molto spesso della continuazione dei movimenti che esplosero in tutta Europa nel 1848 e che nelle realtà rurali hanno avuto come motivo principale proprio quella opposizione all’usurpazione dei beni collettivi, tramite la quale nuovi “galantuomini” si sono arricchiti semplicemente garantendo fedeltà ai nuovi potenti[8], anzi al nuovo “sovrano”.

Anche nell’ex Stato Pontificio e nelle province dell’Emilia il nuovo Regno è intervenuto, con la legge 24 giugno 1888, n. 5489 e con il regolamento della legge 4 agosto 1894, n. 397, per eliminare quelle forme giuridiche ed economiche-sociali assimilabili agli usi civici, quali «Università agrarie, comunanze, partecipante e le associazioni istituite a profitto della generalità degli abitati di un Comune, o di frazione di Comune, o di una determinata classe di cittadini per la coltivazione o il godimento collettivo dei fondi, o l’amministrazione sociale di mandre di bestiame».

Dopo queste leggi, e soprattutto dopo quelle fasciste, rimangono in essere soltanto alcuni usi specifici (legnatico, pascolo ecc.), non più soggetti agli usi delle popolazioni, ma soltanto a quelli necessari ai bisogni domestici e secondo le norme stabilite nel regolamento locale. Le terre del demanio coltivabili, invece, vengono quotizzate e concesse, da parte di commissari regionali all’uopo nominati, «ai cittadini secondo un piano economico, in enfiteusi, e potranno essere affrancate soltanto quando le migliorie saranno state eseguite e accertate». Una sorta di “regolamentazione” con “liste di prescrizione” che difatti elimina l’uso collettivo, e con esso il diritto reale “spettante ai membri della collettività”, relegandolo a specifiche associazioni o enti gerarchizzati; per questi, formalmente, si parla di “proprietà collettiva”, non più di usi civici. Gli altri terreni demaniali, la maggior parte, vengono “affrancati” divenendo proprietà dei “galantuomini”.

Dei sopravvissuti usi civici (mutilati) possiamo trovarne solo rare tracce in alcune zone del Meridione e del Centro d’Italia, in Sardegna, nelle valli bonificate (ma qui vennero trasformati per lo più in “Partecipanze agraria”, con i terreni assegnati direttamente ad associazioni specifici; ce ne sono ancora anche in provincia di Bologna e di Ferrara), nella laguna di Marano per la pesca e la cura ambientale, e in poche altre realtà.

Con la legge 8 agosto 1985, n. 431 (la cosiddetta legge Galasso), «le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici» sono sottoposte a vincolo paesaggistico; indirizzo confermato dall’art. 142, comma 1, lett. h) del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Questa “protezione ambientale” vincola ulteriormente i possibili usi non direttamente autorizzati.

In definitiva, il sostentamento che gli usi civici avevano rappresentato soprattutto per una molteplicità di realtà rurali, fino all’inizio dell’Ottocento, viene eliminato, o comunque si affievolisce man mano, venendo meno le condizioni di uso collettivo non solo dei terreni demaniali, ma anche delle strutture (pertinenze) quali forni o depositi a quest’uso connessi. Processo che con la legge fascista si esaurisce ad esclusivo vantaggio della proprietà privata.

USI CIVICI E PROPRIETÀ

Non sono molti gli studi storici specifici che approfondiscono l’argomento degli usi civici; ce ne sono diversi di carattere giuridico.

Per poter capire meglio di che parliamo è forse bene iniziare a focalizzare i concetti che qualunque discorso sugli usi civici implica, a partire da quello di proprietà, che come si vedrà è connesso a tanti altri concetti che generalmente vengono “ignorati” dai più che ne parlano[9]. Come si differenzia il possesso delle terre: la proprietà si istituisce gradualmente e in forme diverse, a partire dal diritto romano, passando per quello medievale, fino al moderno diritto di proprietà.

Ma gli usi civici (sotto certi aspetti molto più antichi della proprietà perché si collegano al remoto istituto della “proprietà collettiva” sulla terra del comune di villaggio[10]) si sono esercitati perlopiù su terre demaniali, cioè su terre che per definizione non possono essere oggetto del moderno diritto di proprietà, perché non possono cambiare la propria destinazione in base al loro uso o possesso. Quindi, un altro concetto che bisogna chiarire è quello di demanio[11].

Nel Dizionario Universale, ossia Repertorio Ragionato di giurisprudenza e questioni di diritto di Merlin[12] vengono riportati i cambiamenti che il Code civil apporta alle norme civilistiche italiane. La voce del dizionario sul Demanio occupa quasi l’intero volume IV, per 111 pagine, nelle quali viene fatta la sua storia a partire da ciò che si prevedeva nei regolamenti di Carlo Magno conosciuti sotto il nome di Capitolari. «Fin da quel tempo le concessioni che facevansi da’ nostri sovrani di vari parti del lor Demanio, erano di due specie: le prime a titolo di semplice beneficio, cioè quando il possesso de’ fondi conceduti era presso coloro cui era fatta una tal concessione, puramente precario, a titolo di usufrutto, anzi rivocabile, ne’ primi tempi di questo stabilimento, ad arbitrio del sovrano, e in tutti gli altri casi, alla morte de’ possessori; le seconde in perpetuo, in possessiones sempiternas, a titolo di proprietà. … […] i Demani, sia donati a vita, sia conceduti a perpetuità, eran posseduti sotto alcune condizioni di servigio; […] la proprietà e la franchigia non eran, siccome hanno affermato molti autori, espressioni sinonime; e […] per essere i Demani dati a perpetuità, liberi e franchi da ogni prestazione, anche nelle mani della Chiesa, bisognava che questa avesse ottenuto delle lettere di franchigia. … Ne risulta egualmente che coteste disposizioni eran quasi fatte sempre a titolo d’infeudazione»[13]. Il possesso dei terreni era, quindi, un beneficio o una concessione, affrancata o meno, che comunque garantivano una subordinazione feudale.

Merlin prosegue delineando la distinzione fra demanio privato dell’Imperatore, demanio straordinario e demanio pubblico; i primi due sono i beni di cui l’Imperatore può disporre direttamente, mentre quello pubblico è quello che fa capo all’Impero, poi alla nazione. E questo lo descrive: «il Demanio pubblico, nella sua integrità e co’ suoi diversi accrescimenti, appartiene alla nazione; che questa proprietà è la più perfetta che si possa mai concepire, poiché non esiste alcun’autorità superiore che possa modificarla o restringerla; che la facoltà di alienare, attributo essenziale del diritto di proprietà, risiede egualmente nella nazione; e che se nelle circostanze particolari essa ha voluto sospendere per qualche tempo l’esercizio, siccome questa legge sospensiva non ha potuto aver che la volontà generale per base, essa è di pieno diritto abolita, da che la nazione legalmente rappresentata manifesta una volontà contraria». Ma per introdurre, anzi, in qualche modo per legittimare, i cambiamenti politici della nuova “sovranità” nazionale a favore della proprietà privata, Merlin (ma sembra di sentir parlare i nuovi neoliberisti) afferma «Che il prodotto del Demanio è oggi troppo al di sotto de’ bisogni dello Stato per servire al primitivo destino; che la massima dell’inalienabilità divenuta inutile, sarebbe anche pregiudizievole al pubblico interesse, poiché le possessioni dei fondi abbandonate ad un’amministrazione generale, son colpite da specie di sterilità; nell’atto che nelle mani di proprietari attivi e vigilanti esse addivengono fertili, moltiplicano le sussistenze, animano la circolazione, apprestano degli alimenti alla industria, ed arricchiscono lo Stato. … In conseguenza, dopo aver determinata la natura del Demanio nazionale e le sue principali divisioni, la legge aggiunge: Art. 8. I Demani nazionali e i diritti che ne dipendono, sono e rimangono inalienabili senza il consentimento ed il concorso della nazione; ma possono esser venduti ed alienati a titolo perpetuo ad incommutabile, in virtù di un decreto formato dal corpo legislativo, sanzionato dal Re, osservando le formalità prescritte per la validità di queste specie di alienazioni».[14]

Ancora nel codice civile vigente troviamo una definizione simile di questo concetto, che viene distinto in demanio pubblico e patrimoniale. E il demanio pubblico viene ridotto ai fiumi, laghi, spiagge, boschi, strade ecc. Mentre sparisce quello che faceva parte delle Universitas civium demaniali, cioè a dire i terreni comuni[15] che, anche tramite lotte secolari, erano stati sottratti all’appropriazioni feudale e/o proprietaria. Le residue aree di queste ora sono inserite fra il demanio disponibile, patrimoniale, dei Comuni.[16]

La proprietà privata, quindi, si diffonde su tutto il territorio proprio a discapito dei terreni che erano oggetto di usi civici; si potrebbe dire che fra questa e gli usi civici c’è una intrinseca antinomia, da qui la difficoltà di trattare questi argomenti con le sole categorie giuridiche. Chi si è cimentato in questa impresa assimila i terreni oggetto di usi civici alla “proprietà collettiva”; seguiamone i ragionamenti.

Questa si caratterizza — con piccole differenza secondo i luoghi e i tempi — come un «godimento condizionato del bene, con un indiscusso primato dell’oggetto sul soggetto: primato dell’ordine fenomenico, che va rispettato ad ogni costo, sull’individuo; dell’ordine comunitario — cristallizzato dalla oggettività storica — rispetto all’individuo».[17] Paolo Grossi si fa la domanda «Questa cosiddetta ‘proprietà collettiva’ è una proprietà?»[18], e pur rilavando che «la soluzione storica tende a diventare ideologica facendo un clamoroso salto di piani, e il modesto istituto giuridico che è conveniente tutelatore di determinati interessi di ceto e di classe, è sottratto alla relatività del devenire e connotato di assolutezza»[19], propende a salvaguardare il “modesto istituto giuridico” (sic!) introducendo la pluralità della proprietà. Perché ritiene, comunque, che la proprietà non è un problema tecnico, una regola tecnica: «la proprietà non consisterà mai in una regoletta tecnica ma in una risposta all’eterno problema del rapporto fra uomo e cose, della frizione fra mondo dei soggetti e mondo dei fenomeni, e colui che si accinge a ricostruirne la storia, lungi dal cedere a tentazioni isolazionistiche, dovrà, al contrario, tentar di collocarla sempre all’interno di una mentalità e di un sistema fondiario con funzione eminentemente interpretativa.»[20] Questo tentativo di “salvaguardare l’istituto giuridico” della proprietà, meritevole solo per gli approfondimenti che pochi altri fanno, ma non condivisibile, ci offre l’opportunità di sottolineare due aspetti, che riteniamo fondamentali e che di seguito chiariremo.

Se riflettiamo sulla proprietà (o sulle proprietà “plurali”) come al rapporto “fra l’uomo e le cose”, si vede bene che questa travalica quel “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, nel senso che questo diritto apre le porte alla mercificazione e al potere economico, e non solo si differenzia dal “godimento delle cose”, ma rovescia nell’ordine fenomenico il rapporto fra soggetto e oggetto.

Abbiamo visto che la nuova classe dominante, la borghesia, ha praticato, anche tramite l’usurpazione dei demani, l’arricchimento necessario a costituirsi come classe (e come Stato-nazione) e nel contempo ha esercitato la concessione del cosiddetto “diritto di proprietà”, cioè del diritto «di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo» (art. 832 del codice civile); perché è quel “modo esclusivo” di godere delle cose che fa la differenza e uniforma qualunque “pluralità”. Il modo esclusivo di godere e disporne, di possedere, non solo di un oggetto, ma di interi territori, crea dei soggetti esclusi da questo diritto, che diventano essi stessi oggetti. Viene escluso il godimento comune delle cose senza la necessità di possederle: prevale l’oggetto, la cosa da possedere, sul soggetto che gode del suo uso.

Proudhon, che pure fa derivare la proprietà dal possesso e ne distingue le varie forme, con la sua celebre frase “La proprietà è un furto” sintetizza proprio l’analisi della proprietà come il diritto di ricavare un frutto da un bene realizzato dal lavoro altrui, poiché questa è diventata, la proprietà, il diritto, meglio l’abuso, il dispotismo, di possedere un bene senza farne direttamente uso, anzi escludendo il possibile uso che possano farne gli altri. [21]

Tanti altri pensatori anarchici, anche loro testimoni e oppositori di questo processo che vede il contestuale sviluppo del moderno Stato e del capitalismo[22], si potrebbero citare per approfondire queste analisi, ma mi piace citare il geografo Élisée Reclus che, preoccupato perché «Le antiche forme di possesso, che assicurano a ogni membro della comunità pari diritti di sfruttamento della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco, non sono che elementi di sopravvivenza arcaica in fase di rapida estinzione»[23], così descrive il processo proprietario: «Ogni curiosità naturale, la roccia, la grotta, la cascata, il crepaccio di un ghiacciaio, tutto, fino al suono dell’eco, può diventare proprietà privata. Degli imprenditori appaltano le cateratte, le circondano di barriere di legno per impedire ai viaggiatori non paganti di contemplare il tumulto delle acque, poi a forza di pubblicità trasformano in bella moneta sonante la luce che gioca sulle goccioline in sospensione e il soffio del vento che dispiega bande evanescenti di vapori»[24]. Processo che include oltre alle risorse della natura, anche l’uomo (che ne è una parte, anzi Reclus sostiene che «l’uomo è la natura che prende coscienza di sé») che diventa un ingranaggio della macchina economica fondata sulla proprietà. Non si tratta, quindi, di un processo che cambia solo il rapporto fra l’uomo e le cose, ma cambia soprattutto il rapporto fra gli uomini, il rapporto di potere, di dominio, fra gli uomini. Si tratta dell’inizio di quel processo “mercantile” di occupazione dello spazio e dell’intera vita quotidiana.

Processo, che a partire dalla defeudalizzazione della società, ha fin da subito delineato una nuova forma contraddittoria di dominio politico, che molti assimilano alla cosiddetta “rivoluzione democratica”, i cui principi si basano sia sulla coincidenza fra uomo, cittadino e proprietario, sia sulla nuova concezione del pubblico che coincide con lo Stato-Nazione (la nuova “sovranità”), o con ciò che lo Stato “di diritto” deve “amministrare e gestire”; le cose di cui si poteva godere pur senza possederle, diventano dello Stato, che ne vorrebbe cancellare la stessa categoria concettuale: non c’è pubblico, se non quello dello Stato.

Ritornando al “modesto istituto giuridico”, bisognerebbe chiarire ancora altri concetti connessi alla proprietà che sono quelli di allodio e di beneficio, perché chiariscono ulteriormente quello di proprietà. Oggi il diritto di proprietà, checché ne dicano i liberisti (e lo stesso codice: il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, non si può pienamente esercitare!), è un misto fra i due aspetti (allodio e beneficio). A partire dalle leggi paesaggistiche e quelle urbanistiche (introdotte già nel ventennio fascista e che inseriscono da una parte la distinzione fra terreni edificabili — lotti — e non edificabili, e dall’altra l’organizzazione dello spazio finalizzato alle esigenze del capitalismo, che non sempre collimano con gli interessi del singolo proprietario), per finire con tutte le odierne regolamentazioni pubblicistiche e civili, quali autorizzazioni all’esercizio di attività, licenze, concessioni e tutte le altre “elargizioni” che lo Stato concede, alla “piena proprietà” vennero levate alcune “facoltà” (proprietà) che fanno venire meno il “modo pieno ed esclusivo” di godere del bene. Inoltre, lo Stato non è solo il “garante” delle norme (del diritto), ma è dispensatore di ricchezze, con metodi discriminatori o di classe. L’ideologia liberista non regge le contraddizioni del “diritto di proprietà” che sotto molti aspetti non si distingue dal beneficio. Stefano Rodotà a proposito cita Charles Reich che «dice esplicitamente, ricordando che gli stessi diritti di proprietà sulla terra provengono dallo Stato e nascono dopo un’epoca in cui l’attribuzione di tali diritti era soggetta a condizioni e revocabile; e che, definitiva, ogni forma di proprietà trova il suo fondamento in un riconoscimento legislativo»[25]; concetto già espresso con chiarezza da Stirner, che demistifica l’intera ideologia liberale.

Max Stirner così sintetizza il ripristino della nuova “sovranità”: «La materia infiammabile della proprietà fece scoppiare l’incendio della rivoluzione. … La borghesia è l’erede delle classi privilegiate. In effetti solo i diritti dei baroni, tolti loro come “usurpazioni”, passarono alla borghesia. Ma la borghesia ormai si chiamava “nazione”. “Nelle mani della nazione” furono rimessi tutti i privilegi. Con questo cessarono di essere “privilegi” o “diritti esclusivi” e diventarono “diritti”. È la nazione d’ora in avanti a richiedere decime e corvées, essa ha ereditato i tribunali feudali, i diritti sulla caccia e – i servi della gleba. La notte del 4 agosto segnò la fine dei “privilegi” (anche le città, le comunità e i magistrati godevano di privilegi e di diritti di signoria) e il nuovo giorno fu l’alba del “diritto”, dei “diritti dello Stato”, dei “diritti della nazione”. … La rivoluzione provocò il passaggio dalla monarchia limitata alla monarchia assoluta. D’ora in poi ogni diritto che non venga concesso da questo monarca è un’“usurpazione” e ogni privilegio che egli conferisce, invece, un “diritto”». [26]

Il “diritto di proprietà” non può essere disgiunto dal nuovo contesto istituzionale, dal “sovrano”, che lo genera. Si tratta di contestualizzarlo in quella contraddittoria forma di dominio politico che, come abbiamo già detto, fa ideologicamente coincidere, da una parte, l’uomo col cittadino e il proprietario, e dall’altra, il pubblico, il “bene comune”, con lo Stato. Su queste categorie, e sulle contraddizioni che queste coincidenze determinano si è sviluppando un dibattito che sta riemergendo anche di recente.

Le esigenze legate alla crisi di razionalità statale che le politiche del neoliberalismo hanno determinato, alla gestione degli aspetti sociali ed economici conseguenti l’abbandono del welfar state e delle sue politiche, e agli afflussi migratori e ai suoi contrasti che suscitano nostalgiche marcette nazionalistiche, hanno problematizzato ancor di più qualunque discorso razionale sia sulla sfera pubblica assimilata a quella dello Stato, sia sulle categorie della cittadinanza come referenza del diritto di appartenenza a un sistema politico definito territorialmente. Habermas, già nella nuova introduzione a Storia e critica dell’opinione pubblica,[27] nel riformulare il concetto di “sfera pubblica” fa una critica a questa coincidenza pubblico-Stato e ritiene che “è un errore parlare di pubblico al singolare” (anche qui, per salvare “l’istituzione”, si declina il “plurale”) e introduce il concetto di “sfera pubblica plebea”. È questa dimensione “plebea” della sfera pubblica, dentro la quale si sviluppano forme non statali di socialità, che potrebbe rappresentare l’ambito (l’area grigia sociale – la cosiddetta “società civile”) delle sperimentazioni comunitarie? O è la dimensione entro la quale si potrà dispiegare la categoria di “bene comune”? Forse sì per un progetto di recupero di queste tematiche a livello puramente politico e ideologico.

Relativamente alla problematica e alla crisi della cittadinanza lo stesso Habermas, per il quale il concetto di “cittadinanza democratica” è fondante dello stato moderno, si domanda “quale futuro per lo stato-nazione?”[28] e recentemente Donatella Di Cesare propone di andare “al di là della cittadinanza” introducendo la nuova categoria di stranieri residenti.[29] Questi sono tutti argomenti da approfondire, ma rischiano di potare le argomentazioni fuori dalle tematiche che stiamo trattando.

DEGLI USI CIVICI E DEI BENI COMUNI

Gli usi civici, quale pratica di godimento libero e collettivo del bene, abbiamo visto, sono stati eliminati e/o ridotti a rari residui decurtati proprio del diritto della pratica del godimento collettiva. Le stesse aree demaniali dove si erano sviluppati questi usi sono state, in gran parte, o liquidate, o inserite nei piani di forestazione e vincolati alle specifiche norme, o rimaste come patrimonio dei Comuni, e in questi ultimi anni la logica neoliberista dei governi italiani sta portando alla loro svendita, assieme agli altri patrimoni statali. Nell’ordinamento giuridico, inoltre, non esiste più alcun riferimento alla gestione di beni comuni, se si esclude la disciplina codicistica che riguarda i beni condominiali, che però sono tutt’altra cosa.

Ciò nonostante è in auge parlare di “beni comuni”, soprattutto dopo il referendum abrogativo del 2011 che conteneva anche la proposta per l’abrogazione parziale delle norme sulla privatizzazione dell’acqua, promossa proprio dal Comitato per l’Acqua Bene Comune.

Già nel 2007 un’apposita Commissione ministeriale, presieduta da Stefano Rodotà, aveva prodotto una proposta di legge “per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici” in cui si propone di introdurre, fra i beni pubblici, la categoria di beni comuni; proposta che ad oggi non ha avuto seguito legislativo, sebbene abbia prodotto un notevole dibattito sull’argomento.

Il concetto di bene comune si porta dietro, però, delle ambiguità che bisogna chiarire. Innanzitutto, ci riferiamo ad una categoria economica (come per tutti i beni).

Comunemente viene assimilato, o confuso dal momento che nell’ordinamento non c’è pubblico fuori dallo Stato, con il bene pubblico, ma ci sono diverse differenze fra di loro. La normativa vigente di riferimento del bene pubblico, ovvero del demanio, si ritrova nel codice civile (del 1942), negli articoli da 822 a 831; i beni pubblici vengono ridotti a quelli che Merlin definiva «i beni che sono demanio per sua stessa natura: il mare, i fiumi, le rive navigabili, le strade consolari, le mura, i bauardi, i fossati e le controscarpe delle città».[30] A questi vengono aggiunti nel demanio pubblico «le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche degli archivi, delle biblioteche» (art. 822). Nell’art. 826, si stabilisce che: «Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio».

Ma vengono eliminati quelli che Merlin definiva come “demanio antico e demanio nuovo[31] fra i quali si trovavano i beni comuni, ovvero quelli dove si esercitavano gli usi civici.

L’assimilazione, quindi, di questi beni con il demanio avviene perché nella maggioranza dei casi i beni su cui si esercitavano (e parzialmente si esercitano) gli usi civici, le procedure relative all’inalienabilità, all’incommerciabilità, alla non usucapibilità, sono simili e paragonabili a quelle stabilite in questi articoli per il demanio.

La caratteristica principale del concetto di demanio pubblico è infatti quella che è un bene non disponibile per nessuno, nemmeno per lo Stato! Questi beni devono avere, cioè, l’esclusivo scopo per cui sono costituiti, non se ne può fare altro uso (se non quello specificatamente autorizzato dell’amministrazione preposta). Facciamo l’esempio del fiume: l’area demaniale di questo deve poter servire solo a far passare liberamente le acque delle piene, non può essere destinata ad altro. Sappiamo che le intenzioni originarie della legislazione sono nella maggior parte dei casi disattese proprio dall’amministrazione, così che troviamo la maggior parte delle strade, e anche delle nuove urbanizzazioni, nei fondivalle al posto dei vecchi meandri degli alvei demaniali, ma questo è un altro discorso, che si potrebbe estendere alle strade (basti pensare alle ultime vicende relative alle autostrade). La caratteristica del demanio pubblico è comunque questa: l’indisponibilità. Il demanio patrimoniale è, invece, quello, che pur avendo le caratteristiche di bene pubblico, è disponibile ai possibili usi cui è destinato e può essere oggetto di altri diritti e di alienazione.

Il concetto di bene pubblico, sebbene assimilato e ridotto ai beni appartenenti allo Stato, però, ancora non ci aiuta a capire e delineare quello di bene comune.

Galgano per spiegare la categoria giuridica di bene pubblico introduce la categoria economica del bene: «possiamo dire, in generale, che sono beni in senso giuridico solo le categorie suscettibili di valutazione economica.»[32] E poi precisa che «Taluni beni pubblici, come quelli demaniali, possono essere confusi con le cose comuni di tutti, data la loro destinazione all’uso da parte di tutti. La differenza sta nella limitatezza dei primi, che comporta la loro attribuzione allo Stato, cui spetta di garantire il disciplinato uso di tutti.  Ma il concetto di cosa comune a tutti è, anch’esso, un concetto relativo, dipendente dallo sviluppo della civiltà umana. Eccone un esempio significativo: l’etere (ossia l’aria atmosferica considerata nella sua capacità conduttrice di suoni) era fino a ieri qualificato non un bene, ma una cosa comune di tutti, della quale ciascuno poteva fare uso a proprio piacimento e senza limiti. Ma con il moltiplicarsi delle emittenti radiotelevisive si è dovuto constatare che l’etere non consente una disponibilità illimitata di “frequenze” (cioè di possibilità di trasmissione): l’uso intensivo da parte di alcuni, di chi ha per primo installato le emittenti, impedisce l’uso da parte di altri, preclude l’altrui possibilità di servirsi dell’etere. E così l’etere ha cessato di essere cosa di tutti: la tendenza odierna è di considerarlo bene pubblico, appartenente allo Stato, che ne disciplina l’utilizzazione da parte dei privati, distribuendo le frequenze, assegnando turni ecc.»[33]. Le cose comuni di tutti vengono assimilati alle sole “cose” naturali, quelle non ancora “bene” e/o privatizzate, e generalmente classificate come demanio pubblico (naturale). Nella citazione del brano di Reclus, si è menzionato, come di fatti è, che qualunque cosa naturale, la cascata ecc., può diventare proprietà privata e quindi immessa nel meccanismo mercantile; si tratta quindi di una distinzione fittizia, non relativa alla regolamentazione dell’uso: è l’esclusione del libero uso, la privatizzazione, che determina il bene.

Il “bene comune” non solo è di tutti ma per essere fruito postula una certa convergenza di fruizione, collettiva; inoltre, a differenza di quello pubblico, può essere rivale (può precludere il consumo da parte di altri individui). Quindi, quali sono i beni comuni nell’ordinamento proprietario? Qui si aprono le interpretazioni più varie. Dall’elenco dei beni citati fra il demanio, si fa fatica a farci rientrarne qualcuno in modo efficace. Anche se le caratteristiche potrebbero iniziare a delinearsi come quei beni indisponibili e inalienabili, come il demanio, e pertanto sottratti al mercato e alle sue logiche (se non fossero soggetti ad altri vincoli come le concessioni).

Il testo della relazione della citata Commissione Rodotà, che da più parti viene nominato come innovazione dell’istituto della proprietà, oltre a propone l’introduzione fra i beni pubblici delle cose immateriali, propone la “categoria dei beni comuni”, riducendoli a questa definizione: «ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona. …. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.»[34] Non fa altro che ribadire le caratteristiche e il “regime giuridico” di questi nuovi beni, che però erano già propri del demanio. Si definiscono le possibili fruizioni di tali beni: «Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe»[35]. Sostanzialmente, con questa introduzione dei beni comuni, non cambia niente perché questi si assimilano ai beni demaniali per i quali sono già previste le stesse possibilità di concessioni. Si ribadisce soltanto la possibilità dell’amministrazione statale di poter concedere l’eventuale beneficio. Il possibile “godere” delle cose collettivamente, senza possederle, non può che derivare da un “beneficio”, da una “concessione”, cioè l’uso dei beni rimane assoggettato; gli stessi beni, di per sé inappropriabili, rimangono “proprietà pubblica” e quindi dello Stato che ne fa oggetto di eventuali “benefici”, discrezionali e subordinati alla fedeltà. Non si esce fuori da queste contraddizioni, rimanendo nell’“istituto della proprietà”.

Giorgio Agamben, nelle sue ultime opere, propone, fra altro, l’abdicazione dei diritti sia di proprietà sia d’uso, tramite una “potenza destituente” il potere statale[36]. Forse non è il francescanesimo che può essere preso a modello, né gli altri movimenti ereticali come il Libero spirito[37], ma l’esigenza di pensare una vita e una prassi umana assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto è quanto mai urgente. Si deve contrapporre, parafrasando Vaneigem, ad una prospettiva “mercantile” la cui cifra è la sopravvivenza, una prospettiva di vita.

Usi civici e autogestione

Nonostante il concetto di bene comune rimanga estremamente “debole”, si sono sviluppati in questo stesso periodo alcune esperienze, sia di movimento, sia istituzionali, seppur marginali (Palermo e Napoli), che si rifanno alla possibilità di gestione, a modo degli usi civici, di alcuni beni, in specifico quelli cosiddetti beni comunali urbani e/o agricoli. (Ci sarebbero, inoltre, da approfondire gli altri aspetti relativi anche ai beni immateriali che, sulla scia della citata proposta di legge, vengono associati a quelli comuni — per evitare che le dichiarazioni di principio possano nascondere realtà completamente falsificate. Per esempio, si parla di comunicazione, di infrastrutture di rete, ma anche di informazione, assimilati ai beni comuni. Ma sappiamo che questi “ambiti” sono già quelli del nuovo sviluppo del sistema capitalista.[38])

Senza entrare nell’aspetto più propriamente “politico” di queste esperienze e della proposta scaturita da Mondeggi[39], bisogna però rilevare che, anche in questo ambito, le categorie concettuali che vengono usate, sono abbastanza sfumate e si prestano a diverse interpretazioni: i beni comuni e gli usi civici vengono associati sia ai momenti autogestionali dei luoghi (assegnati o occupati) e delle attività, sia alla “cittadinanza attiva”, sia alla cooperazione sociale e al mutualismo, per finire con associarli al municipalismo; in alcuni casi usando questi come sinonimi.

Sinonimi non sono e per chiarire questi concetti basta fare una riflessione sulle possibili affinità che questi stessi possano avere con le istituzioni statali.

Partiamo dal municipalismo (forse, la teorizzazione, in merito, più spinosa): Bookchin ci può servire a chiarire questo concetto e soprattutto il senso della politica che questo concetto sottende. Proprio per evitare le trappole dei meccanismi di “gestione” istituzionali, nei suoi scritti chiarisce che la sua proposta non è quella di una partecipazione ai momenti di “coinvolgimento” che le istituzioni predispongono per creare consenso, o comunque per poter “gestire” aspetti sociali ed economici, lasciando invariato la struttura del potere statale[40]. La sua teorizzazione del municipalismo è frutto della visione ecologista (ecologia sociale e della libertà) della vita[41] — “del modo in cui le forme di vita interagiscono tra loro per costruire comunità e per evolversi come comunità” — visione di cui uno dei precetti fondamentali è “l’unità nella diversità”, la comunità tra diversi (sarebbe meglio dire tra unici) — di conseguenza la capacità di qualunque comunità, movimento o singolo organismo, di “saper parlare plurale”. Pertanto, l’inquinamento principale contro cui bisogna lottare e che bisogna eliminare è quello della gerarchia, del comando e dell’obbedienza[42].

Il municipalismo si sposerebbe benissimo con una politica di riattivazione generalizzata degli usi civici, a modo della gestione diretta dei beni comuni, realizzata tramite le assemblee di comunità, le cui modalità operative sono quelle della democrazia diretta: la revocabilità in ogni momento di quanti via via vengono delegati a ‘funzioni’ esecutive, comunque specifiche e definite, e la effettiva possibilità di ciascun individuo di operare e decidere con conoscenza di causa. Come d’altronde sta avvenendo, per esempio, nelle comunità Zapatista e nel Rojava.

Questa teoria, però, si può prestare ad equivoci: spesso viene ridotta da logiche politiche e “gestioniste” che inevitabilmente si distanziano da quelle libertarie; la “comunità” è vista come un organismo unitario che necessita di un “governo”, quant’anche “autogoverno”; così che si continua a vedere e riproporre quella corrispondenza fra pubblico e univoca entità di gestione di questo. Non si viene fuori dalla dicotomia fra pubblico o comune, e gestione, amministrazione “generale” … statale. Anche nella “gestione dello spazio pubblico non statale”, in questa teoria, si riproduce la politica come compito, come mansione separata; benché la delega delle funzioni esecutive dell’assemblea può essere revocata ad ogni istante, il delegato, che sarebbe meglio chiamare incaricato, non acquisisce più vita indipendente in quanto “si trova ad ogni istante sorretto del braccio dei suoi mandanti che possono da un’ora all’altra lasciarlo cadere”,rimane implicito, in questa e nonostante quanto esplicitamente detto contro la gerarchia, il concetto di divisione del “sapere sociale” e la sua inevitabile gerarchizzazione pratica.

Inoltre, se la comunità viene definita a partire dalla “gestione” del suo territorio, si ripresentano tutti i rischi legati all’etnicità e elle conseguenti politiche quantomeno settarie e/o nazionaliste.[43]

Diciamo che la visione “politica”, nel municipalismo, prevale su quelle che potrebbero essere le dinamiche di “movimento”, declinate inevitabilmente al “plurale”.[44]

Le dinamiche sociali che si sono sviluppate con il sistema capitalistico hanno creato realtà “molto distanti” fra di loro, non solo geograficamente, ma anche socialmente. Nello stesso territorio, che sia quartiere, villaggio o città, convivono (con o senza conflitti) mondi e culture totalmente diversi: nonostante il “consumismo” e la diffusione e l’uso dei media che hanno uniformato “massificandole” le differenti culture, persistono modi di vivere e culture totalmente differenti[45]. Contemporaneamente i centri decisionali dell’attuale sistema hanno centralità che travalicano gli stessi stati-nazione, accentuando la distanza fra politica e società. È questo contesto che ha messo in crisi l’adeguatezza non solo del concetto di comunità ma degli stessi sistemi politici tradizionali, soprattutto quelli del liberalismo, o quelli democratici, che non riescono più a garantire alcuna parvenza di rappresentatività e liberalità. La “cittadinanza attiva”, la cooperazione sociale, e il mutualismo assomigliano molto a quei “corpi intermedi” tra Stato e cittadino, che Ardigò chiamava “mondo vitale”[46] e, abbiamo visto, Habermas “sfera pubblica plebea”, che hanno funzione di raccordo istituzionale e sono tentativi di legittimazione, di creare delle fittizie vicinanze ed evitare l’esclusivo mezzo del terrore per “governare”. Si tratta di momenti di partecipazione “attiva” che molti attuano nel tentativo di creare forme di socialità; fra questi troviamo innanzitutto il “volontariato”, che nel mondo della Chiesa predomina, ma che si diffonde in ambiti diversi e “laici”, e viene “caldeggiato” dalle istituzioni anche per supplire alle carenze delle politiche sociali.

Certo, con queste attività, si pratica la gratuità del proprio tempo, che viene messo a disposizione di strutture e contesti specifici, ma non c’è alcuna connessione con i “beni comuni” e gli usi civici, che hanno la logica inversa, cioè di poter godere dei beni collettivi liberamente. Proprio perché queste attività sono totalmente funzionali, non alterano alcun rapporto del sistema di sfruttamento e oppressione: si continua a “sopravvivere”, anche in questi momenti separati dal resto dell’esistenza, e in molti, nei migliori dei casi ci si ritrova soltanto a fare un lavoro non pagato.

Altre attività, che potrebbero essere assimilate al “volontariato” per la loro ricerca di “comunità” o di socialità e per la pratica della gratuità del proprio tempo, si differenziano da questo per il tentativo di creare “uscite dal mercato”, dalle logiche mercantili e speculative (per esempio, i GAS e gli altri esperimenti legati al consumo sociale alternativo di beni), o per creare sistemi di mutualità (per esempio, “banca del tempo”). Ma neanche queste presentano alcuna connessione con il libero godimento dei beni, con la pratica degli usi civici, che implicherebbe un cambiamento dell’istituto della proprietà e una generalizzazione degli ambiti autogestionali. Anche queste attività, quando rimangono per lo più solo momenti separati dal resto della propria vita e non riescono a produrre quelle rotture capaci di coalizzare le forze di un progetto di cambiamento generale e radicale, si circoscrivono nelle logiche dei “mondi vitali”, del raccordo funzionale fra istituzioni e società.

Con l’autogestione, entriamo in un campo più complesso, il concetto viene molto usato dagli anni Sessanta, legato ai movimenti di lotta che da quegli anni si sono diffusi in gran parte del mondo.

Questi movimenti, che in alcuni momenti hanno avuto aspetti e valenza rivoluzionarie, si sono generalmente posti in modo non solo “periferico” rispetto ai centri decisionali del sistema, ma con carattere che potremmo definire, assieme a Rudolf de Jong, “pre-politico” o postpolitico[47].

L’ottica della contrapposizione “politica” con chi governa apparteneva solo ad alcune minoranze, ai cosiddetti partitini extraparlamentari, ma la maggior parte in questi movimenti, e comunque la pratica di questi movimenti, si poneva nell’ottica dell’attacco e della critica del sistema nel suo complesso, nella sua “essenza”.

Così descrive le caratteristiche, o l’essenza, del movimento del maggio parigino Oliver Revault d’Allonnes: «Ciò che è messo in causa è l’autorità sotto tutte le sue forme. [Sartre diceva che l’idea stessa che un uomo possa avere potere su di un altro uomo, è un’idea assurda]. E la pratica scopre che è altrettanto assurdo che un uomo compri un altro uomo, sia pure al dettaglio, salariando il tempo della sua vita. Si giunge così, per approcci graduali a contestazioni “contingenti” e “locali”, o che appaiono tali, contro il lavoro, le forze armate, la scuola, i rapporti tra i sessi, ecc., ma che in effetti non lo sono, poiché ciascuna di essa attacca il sistema, il modello. È evidente che, nella misura in cui un sistema come il capitalismo attuale è totalitario e monolitico, se si tira da una parte, crolla tutto, perché tutto è collegato. Non vi sono lotte (antirazzista, antipsichiatrica, antimilitarista ecc.) che non mettano in causa tutto il modello ed anche tutti i modelli. In altre parole, la lotta contro un sistema soffocante è anche lotta contro la soffocazione, lotta contro il sistema o la sistematizzazione in sé: organizzazione, programmazione, previsione, “razionalizzazione”»[48].

Molti in questi movimenti, alcuni in modo esplicito, affondavano le loro culture e i loro progetti, nelle esperienze che il movimento proletario ha realizzato nei suoi momenti più spontanei, dalla Comune di Parigi in poi: l’autogestione generalizzata di tutti gli aspetti di vita sociale.[49]

Si è trattato di momenti di lotta che sono nati principalmente nelle fabbriche e nelle università, fuori, autonomi, e in molti contesti contro le strutture tradizionali quali sindacati e partiti, e i cui momenti organizzativi erano quelli dei piccoli collettivi e/o delle assemblee, dove tutti potevano partecipare alle discussioni. In alcune fabbriche e nelle università occupate si sperimentava l’autogestione — il consiliarismo sembrava essere rinato e si rinnovava la sua teoria —, e da questi momenti locali, le cui lotte in genere nascevano per “contingenze” specifiche, si sono sviluppati le contestazioni di tutti gli altri ambiti e aspetti della propria vita, scoprendoli fortemente collegati (i Situazionisti avevano ripreso da Henri Lefebvre il concetto di “critica della vita quotidiana”, facendolo diventare un connotato dei movimenti molto diffuso). Dalle lotte operaie e studentesche del ‘68 in poi, infatti, emerge con forza la tematica della “gestione diretta” di tutti gli aspetti e momenti della vita, mettendo in causa la “gestione dall’alto” rispetto alle esigenze egualitarie proprie delle aspirazioni di ogni individuo. A partire dalla contestazione dei ruoli sociali, di genere, ma anche di quelli politici (la “critica della militanza”, legata alla critica della famiglia, è stata la conseguenza delle pratiche relazionali del movimento), si è riscoperta la dimensione sociale, o collettiva, a partire dal proprio corpo, e da questo al piacere dell’unirsi.

«L’autogestione è la dimensione relazionale dell’individuo. Difatti è possibile solo se il singolo è padrone del suo tempo e se può partecipare alla creazione del proprio spazio, se non ha queste “proprietà” è un individuo eterodiretto»[50]. Il piacere di unirsi con gli altri, ad iniziare dall’incontro sessuale, fa riscoprire il “piacere dell’altro” come parte fondamentale del proprio. Così la comunità, che è l’ambito di queste relazioni, somiglia molto a quell’“essere singolare plurale” proposto da Jean-Luc Nancy.

Non bisogna pensare questo come ad una sola dimensione individuale ed esistenziale: i movimenti di lotta di questi anni erano in cammino verso la trasformazione di tutti gli ambiti sociali, a iniziare da quello produttivo; l’autogestione inizia proprio con la critica della divisione del lavoro e propone una visione produttiva legata alle esigenze della vita non a quelle economiche. In questo senso il concetto dell’autogestione, presuppone una trasformazione radicale della società che può fare a meno degli usi civici, perché non è solo uno spazio deputato, o l’uso di uno specifico bene “comune”, in qualche modo concesso o comunque preso, che diventa il contesto dove esercitare la propria libertà, dove in un qualche modo circoscrivere la propria vita, ma è quest’ultima che autodeterminandosi crea tutti i contesti ad essa necessari. Quindi l’autogestione, così intesa, necessita una trasformazione dell’intera società e dei suoi sistemi di potere, ha bisogno di “realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto”.

Ma quanto proponeva con urgenza Vaneigem con il suo De la grève sauvage à l’autogestion généralisée[51], è rimasto inascoltato, non realizzato, e non c’è stato quel salto che avrebbe potuto portare alla generalizzazione dell’autogestione.

Questa è presto diventata anche una tematica e una “pratica” di recupero; qualunque esperienza, infatti, può essere facilmente “recuperata” dal sistema, secondo la costante della sua storia: “la riconversione economica delle idee rivoluzionarie”. Per esempio, l’autogestione è entrata nelle strategie di riconversione industriale che la hanno adottata in alcuni contesti, circoscritti, per produrre integrazione e partecipazione.[52]

L’autogestione ha però delle valenze e, potremmo dire, dei principi metodologici che sono comunque validi per ogni progetto o prospettiva di emancipazione umana, rappresentando meglio di ogni altro concetto quella “potenza destituente” il potere statale.

Paolo Ranieri, in un suo recente saggio, fa queste riflessioni sulle quelle esperienze autogestionarie di movimento e sul metodo assembleare, che condividendole pongo a conclusione di questo scritto: «L’errore, discendente da una concezione troppo meccanica della dialettica, stava nel percepire i consigli come un sostituto dello Stato, mentre se rettamente intesi, ne costituirebbero esattamente l’opposto. Il meccanismo della tripartizione dei poteri, fra loro indipendenti, legislativo, esecutivo, giudiziario, che tanto entusiasma il liberale, nasce dalla preliminare separazione del potere dal soggetto vivente: viceversa, la teoria dei consigli operai, come è andata storicamente formandosi, tende ad accantonare la fase del giudizio, a ridurre all’essenziale la fase legislativa, teorica, per condurre i consigli a divenire una sorta di forma di governo, destinato a decidere direttamente di questioni noiose al limite nauseante, quelle che oggi pretendono di essere chiamate politica. Questioni che non fanno battere il cuore a nessuno… In realtà, i consigli non possono essere uno strumento esecutivo, poiché l’esecuzione ha da rimanere patrimonio inalienabile del singolo, che in sede collettiva si limita a illuminare riguardo alle proprie azioni, a illuminarsi del loro successo, e a ricevere del pari riflessi e sfumature della narrazione altrui; ma uno strumento di permanente giudizio sul passato (e anche da questo punto di vista la valutazione degli eventi e delle responsabilità non può condurre a un’esecuzione collettiva, pena il rinascere dello Stato e delle sue galere e dei suoi aguzzini), sul presente e sul futuro, confrontando i criteri che ciascuno desidera condividere con gli altri, intesi alla valutazione degli accadimenti e all’individuazione di soluzioni. … Il consiglio non emana leggi, non impartisce ordini, non condanna e non assolve, NON VOTA; non è in alcun modo un soggetto a parte, separato da coloro che lo costituiscono. E ne fa parte non il titolare di un diritto astratto, che gli deriverebbe dalla nascita, dalla residenza, dal domicilio, dal censo, dalla competenza, dall’altrui scelta, dal lignaggio, dalla fede, dalla tessera; ma chi concretamente vi si presenta per confrontare il proprio punto di vista con quelli altrui. È per certi aspetti un’anti-istituzione, un’istituzione negativa, simile in questo una volta ancora all’istituto del Copyleft: un’istituzione il cui fine è unicamente quello di non permettere la nascita di altre istituzioni, di mantenere il mondo libero da tutto ciò che esiste separatamente dagli individui. Di presidiare lo spazio fra gli individui con l’unico indispensabile fine di lasciare questo spazio sgombro, così che ciascuno possa vivere come è bello vivere, insieme con gli altri, ma distinti da ciascuno di essi, potendo scegliere volta per volta se, quando, come, perché toccarsi (o anche, in alcuni casi, come scriverebbe Sergio Ghirardi, fondersi). Consapevoli della propria duplice natura, di gastronomi e di ingredienti, di autori della propria storia e di personaggi della storia altrui. Di ospitanti e di ospitati. E consapevoli altresì, che è SEMPRE meglio discutere senza riuscire a decidere che decidere senza aver discusso».[53]

E oltre precisa: «L’autogestione generalizzata è il nome che diamo a quel processo di ricostruzione incessante del mondo a opera dei produttori associati, cui si riferisce Jorn [54]. Forse è una definizione, per la sensibilità di oggi, troppo spostata sul “produttivo”, sul “costruttivo”; in questo senso possiamo cogliere un contrappeso in “autogestione”, che allude in certo modo anche ad “autocontrollo”, e può racchiudere un opportuno grano di equilibrio fra costruzione e decostruzione, crescita e decrescita, intervento e cautela, che ci hanno ispirato i decenni che ci separano dai tempi in cui queste definizioni erano state concepite.

La rete degli individui federati non è, non vuole essere e non può essere una società perché non ha e sceglie di non avere né centro, né leggi, né principi ordinatori: ciascuno si fa portatore di leggi proprie e quindi fa centro per sé stesso e infaticabilmente scompagina e ricompone il mondo. Chi mantenendo la propria singolarità e chi aderendo a una comunità, separandosi da un’altra, secondo le inclinazioni del momento. In ogni caso, né i singoli né le comunità sono proprietarie (e tanto meno sovrani) del particolare territorio in cui agiscono e operano e sopravvivono, ma unicamente usufruttuari pro tempore di ciò che in quel momento utilizzano. Questo perché sono già tutti proprietari e sovrani, in solido con ogni vivente, del mondo intero. La proprietà particolare, sia essa privata o pubblica, diviene a questo punto un assurdo logico, comportando insieme a un’evidente prevaricazione ai danni altrui anche una sostanziale rinuncia ai propri stessi danni. Romolo che traccia con l’aratro i confini di Roma, pretende di escludere dall’interno di quei confini, ma al tempo stesso proclama di rinunciare a quanto si trova all’esterno. Pur di rendere assurdo il proprio potere parcellare, abdica al potere condiviso sul mondo. Il risultato immediato di un tale colpo di genio? Uccide il proprio fratello. A questo conducono invariabilmente l’affermazione di sovranità e la pretesa proprietaria[55].

Una convivenza fra diverse associazioni cui liberamente aderire o non aderire: ma rigorosamente aliene da ogni base territoriale, perché solo in questo modo sarebbe possibile rispettare quella terra di nessuno dove tutto è permesso e farla convivere con luoghi dove, per poter sperimentare specifiche passioni e progetti, si è trovato piacevole e opportuno concordare delle regole, per meglio incentivare e attizzare i propri godimenti. Solo questo tipo di federalismo può salvarci da quelle leggi universali che, come preconizzava Kant, costituirebbero una universale schiavitù. E d’altronde solo il gioco perpetuo fra stanzialità e nomadismo, fra attività progettuale e ricettività senza ostacoli, può ambire a farsi alimento della storia umana»[56].

Bologna, 3 maggio 2019


[1] L’etimologia di uso, secondo Ottorino Pianigiani, autore del Vocabolario della lingua italiana, deriva dal latino usus che è il participio passato di uti: servirsi, procacciare vantaggio, e quindi, passando per utis, godere, saziarsi. Per il Devoto-Oli, uso, nel linguaggio giuridico, si riferisce “al diritto reale di godimento nei riguardi della cosa altrui”, ma sarebbe meglio parlare del godimento di una cosa “non sua” (uso una cosa, non la posseggo).

[2] Fabrizio Marinelli, Gli usi civici, Giuffrè Editore, Milano, 2013.

[3] Ivi, pag. 4. Riporto la nota n. 6, della stessa pagina, esplicativa dei suoi intendi epistemologici: “Sull’utilizzo semplificatorio ed ampiamente comprensivo dell’espressione «usi civici» si veda U. Petronio, voce Usi civici, in Enc. dir., XL V, Milano, Giuffrè, 1992, p. 931, il quale, riprendendo un vecchio testo del ‘56 (G. Flore, A. Siniscalchj, G. Tamburino, Rassegna di giurisprudenza sugli usi civici, Roma, 1956, p. 3), definisce gli usi civici come «i diritti spettanti ad una collettività (espressione di un comune o di una frazione di esso), consistenti nel trarre utilità elementari dal demanio di un determinato territorio, composto non solo dalle terre, ma anche dai pascoli, dai boschi e dalle acque. Il loro contenuto è il godimento di detti beni a favore di un comune o di una frazione, godimento che viene esercitato uti singuli dai componenti di quella collettività, proprio in virtù della loro originaria appartenenza ad essa». Anche G. Faraone, Presentazione del disegno di legge quadro in materia di usi civici, in Gli usi civici. Realtà attuali e prospettive, Atti del Convegno di Roma, 1-2 giugno 1989, a cura di O. Fanelli, Milano, Giuffrè, 1991, rileva: «“Usi civici” è un’espressione globale e di comodo, che va riferita ad una vasta e complessa realtà giuridica, economica, sociale e politica, implicando l’esigenza concreta della salvaguardia, corretta gestione, e proficua utilizzazione, nell’interesse generale, di rilevantissimi beni pubblici, alla cui conservazione e tutela le collettività, effettive titolari di quei beni, sono particolarmente sensibili, nonostante le trasformazioni e le evoluzioni sociali sopravvenute che hanno, nella sostanza, e nella quasi generalità, sottratto i beni stessi ai primari ed originari fini, di soddisfacimento di insopprimibili esigenze di vita delle popolazioni, nella cui titolarità però i beni stessi sono rimasti e nel cui interesse debbono essere rimessi in circolo, in rispondenza alle moderne suscettività e pubbliche finalità, escludendo dispersioni e sottrazioni speculative».”

[4] Cfr. Antonio Palermo, Enfiteusi – Superificie – Oneri reali – Usi civici, UTET, Torino 1965: “quando la popolazione aveva il possesso della terra perché ne aveva il dominio, e ne godeva e ne disponeva come di una cosa propria, la terra costituiva il suo demanio universale e comunale. Quando, invece, la popolazione partecipava al godimento della terra posseduta dal Feudatario a titolo feudale, la terra costituiva il dominio feudale”. In ambedue i casi, bisogna però specificare, il feudatario esercitava la “signoria politica ed amministrativa”.

[5] [Termine è il segno di confine fra due fondi e i Romani onoravano come divinità le pietre che segnavano il confine, da qui “Dio Termine”].

[6] Vincenzo Padula, Persone in Calabria, a cura di Carlo Muscetta, Parenti Editore, Firenze, 1950, pagg. 569 – 573.

[7] Sono pochi gli studi che si distanziano da questa vulgata, fra questi Cfr. Eric J. Hobsbawn, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1975; Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1966; Alfredo Maria Bonanno, Dal banditismo sociale alla guerriglia, Edizioni Anarchismo, Catania 2013.

[8] Vincenzo Padula, Calabria prima e dopo l’Unità, vol. I, a cura di Marinari A., Laterza, Roma- Bari, 1977. Cfr. anche Galantuomini e clienti. Ossia le difficoltà della democrazia nel Sud. Una serie di articoli da Acri che, apparsi nel 1878 sul Rabagas, l’opinione pubblica attribuiva a Vincenzo Padula, a cura e con introduzione di Attilio Marinari, ed. Carlo M. Padula, Roma 1989.

[9] Fabrizio Marinelli, Gli usi civici, op.cit. pag. 5: «Un discorso sugli usi civici non può non essere un discorso sulla proprietà. Ed è pertanto su di essa che deve preliminarmente compiersi una riflessione, proprio per verificare in qual misura la concezione che si vuole identificare come “tradizionale” della proprietà, e che la qualifica come diritto reale, individuale ed assoluto, possa distorcere il corretto esame di quel fenomeno che, come si è visto, si identifica e si sintetizza, nella sostanza giuridica ed economica, con l’espressione semplificatoria “usi civici”».  E ancora a pag. 6: «In verità, per comprendere appieno gli usi civici occorre rimettere in discussione proprio quel concetto di appartenenza individuale che nasce con il Code civil, che perviene al suo definitivo perfezionamento in senso borghese con la pandettistica tedesca di fine secolo, e che si trasferisce senza problemi nella dottrina italiana ufficiale tra Ottocento e Novecento».

[10] Cfr. i testi di Pëtr Kropotkin, Stato e il suo ruolo storico, ed. Anarchismo, Trieste, 2009, e Il mutuo appoggio, ed. Anarchismo, Trieste, 2012.

[11]  Approfondiremo la tematica del demanio anche nel paragrafo successivo.

[12] Dizionario Universale, ossia Repertorio Ragionato di giurisprudenza e questioni di diritto di Merlin, Antico procuratore generale presso la Corte di Cassazione di Francia, Versione Italiana di una società di avvocati sotto la direzione dell’avvocato Filippo Carillo, Prima Edizione Veneta ricostruita sul testo ed arricchita di una giunta relativa a’ cangiamenti apportati dalle leggi civili e penali attualmente in vigore presso tutti i Regni e Stati Italiani. Tomo IV, Venezia 1836.

[13] Ivi, pagg. 6 – 7. Così che «Lo stato di mediocrità e di distruzione in cui era ridotto il Demanio quando Ugo Capeto pervenne alla corona, gli fece sentir la necessità di formarsi a tal proposito un piano di amministrazione totalmente opposto a quello che i suoi predecessori avevano fino allora seguito. I parteggi regali, la divisione e la debolezza che n’erano state le conseguenze, cagionato avevan la decadenza e la rovina della casa di Carlomagno; i vasti stati di questo principe si eran di già dispersi tra un gran numero di usurpatori; e non esistevano che miseri avanzi tra le mani di Luigi V, ultimo re di questa razza, quando alla sua morte Ugo Capeto aprì la dinastia colle leggi della quale oggi siam governati». Pag. 8. Per inciso, si evidenzia come la stessa proprietà privata era considerata una concessione, un beneficio, subordinata alla fedeltà feudale.

[14] Ivi, pag. 23. Lo stile, la logica, è la stessa degli attuali neoliberisti che “privatizzano” patrimonio e funzioni economiche-sociali che facevano capo allo Stato.

[15] Si trattava di proprietà comune che non sempre coincideva con una gestione comunale, solo in tempi più moderni si fecero coincidere. Una particolare vicenda di un fondo dell’antica Universitas di Acri, la “Montagna di Pietramorella”, condivisa fra più Comuni, è raccontata da Vincenzo Feraudo, ne “La causa dei cento anni, ovvero: storia dei giudizi per la divisione dei demani ex feudali tra il Comune di Acri ed i Comuni Albanesi di S. Giorgio, S. Cosmo e Vaccarizzo”, Cosenza 1990.

[16] Così Galgano riassume il processo di formazione della proprietà privata: «In quella stessa epoca si è formato il concetto moderno di proprietà, quel concetto che troviamo espresso nell’art. 832 del nostro codice civile e che oggi definiamo come concetto tradizionale. La sua introduzione fu, allora, una autentica rivoluzione, e la rivoluzione consistette nella affermata unità del diritto di proprietà. Nell’epoca anteriore, le cose formavano oggetto di una pluralità di diritti, tutti definiti come proprietà (o, nel linguaggio del tempo, come «dominio»): coesistevano, sulle medesime cose, il dominio eminente, che era la proprietà del sovrano, estesa a tutte le cose esistenti nel regno; il dominio diretto, che era la proprietà dell’aristocrazia feudale, investiva le cose esistenti in ciascun feudo; e, infine, il dominio utile, che era la proprietà borghese. Il primo implicava l’illimitato e arbitrario potere del sovrano di fare tutto ciò che gli fosse piaciuto delle cose esistenti nel regno; il secondo legittimava la pretesa del signore feudale di riscuotere rendite dalle cose esistenti nel feudo; il terzo era la facoltà di godere e disporre delle cose, corrispondente all’odierno concetto di proprietà. La rivoluzione borghese eliminò il dominio eminente ed il dominio diretto; elevò il dominio utile ad unica forma di proprietà». Francesco Galgano, Diritto privato, Cedam, Padova 1984, pag. 118. Qui il dominio utile viene assimilato tout court alla proprietà borghese senza specificare che si è trattato anche e spesso di uso e godimento comune di terreni e beni, che soprattutto che non poteva essere oggetto di alienazione né di eredità; quindi solo per i pochi terreni allodiali si può parlare di corrispondenza con “l’odierno concetto di proprietà”.

[17] Paolo Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, sta in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 17, Giuffrè Editore, Milano, 1988, pag. 364.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, pag. 366

[20] Ivi, pag. 370. Grossi considera l’Alto Medioevo come «una grande civiltà possessoria … Senza presenze statuali ingombranti, senza ipoteche culturali, l’officina altomedievale riduce la proprietà a mero segno catastale e costituisce un sistema di situazioni reali fondato non già nel dominium e neppure nei dominia ma su molteplici posizioni di effettività economica del bene. … E, al centro dell’ordinamento e delle sue attenzioni, non più il soggetto con le proprie volizioni e presunzioni, ma la cosa con le sue naturali regole riposte, forza impressionante ogni forma giuridica, anzi costitutiva di ogni forma giuridica. … Lo schema proprietario come schema interpretativo è sentito assai poco e la proprietà, senza essere smentita, resta una impalcatura inerte sulla quale si innestano con autonomia altre forze, che sono precisamente quelle produttrici dell’ordinamento in crescita. … Qui il problema centrale non è il vincolo formale ed esclusivo sancito dai libri fondiari, l’appartenenza del bene a qualcuno; è l’effettività sul bene prescindendo dalle sue formalizzazioni. Possiamo anche dire che è il ‘possesso’ del bene». Ivi, pagg. 368-369.

[21] Oltre al testo di Proudhon, La proprietà, tutti le altre sue opere sono utili per approfondire l’argomento e fra queste soprattutto il Sistema delle contraddizioni economiche, Edizioni Anarchismo, Catania 1975, che inquadra le problematiche nel sistema capitalista (che è tale a partire dalla proprietà del capitale prodotto socialmente), di cui lo Stato ne è, non solo il garante, ma anche una parte strutturalmente indispensabile e funzionale.

[22] Il capitalismo non è ovviamente connesso alla sola proprietà, il suo sviluppo è più strettamente legato alla tecnologia; ma l’appropriazione esclusiva della ricchezza ne è sicuramente la sostanza.

[23] Élisée Reclus, L’Homme et la Terre, citato da John P. Clark nell’introduzione a Natura e società, scritti di geografia sovversiva, ed. Elèuthera, Milano 1999, pag. 117.

[24] Élisée Reclus, Il sentimento della natura, sta in Natura e società, scritti di geografia sovversiva, op. cit., pagg. 172 e suc.

[25] Stefano Rodotà, La logica proprietaria tra schemi ricostruttivi e interessi reali, sta in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 5-6 Giuffrè Editore, Milano, 1977, pag. 886.

[26] Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Edizioni Anarchismo, Catania 2012, pagg. 68, 69. Con Stirner si demistifica l’intero “istituto” del diritto e con esso del liberalismo: chi detiene realmente i diritti è lo Stato, che può elargire privilegi.

[27] Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002.

[28] Cfr. Jürgen Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998

[29] Cfr. Donatella Di Cesare, Stranieri residenti, Boringhieri, Torino 2017 e Israele. Terra, ritorno, anarchia, Boringhieri, Torino 2014.

[30] Merlin, Dizionario Universale, op.cit. pag. 25.

[31] Ivi. «Il Demanio antico è quello formatosi fin dal cominciamento della monarchia mediante la divisione delle terre novellamente conquistate … Il Demanio nuovo è composto di terre e di beni che furono dipoi riuniti al Demanio antico, sia per l’avvenimento del Re alla corona, sia per la successione che gli son deferite, sia per gli acquisti…», pag. 25.

[32] Francesco Galgano, Diritto privato, op. cit. pag. 99

[33] Ivi, pagg. 101-102 [corsivo mio]. Per Galgano i beni sono tali solo se oggetto di diritto: «ossia le cose che l’uomo aspira a fare proprie, a fare oggetto di un proprio diritto, che escluda gli altri dalla loro utilizzazione», pertanto i beni comuni sono assimilati a quelli dello Stato, della proprietà pubblica; sebbene rileva nell’istituto oltre alle proprietà privata o pubblica quella “sociale” ritiene che quest’ultima non trova riscontro reale: «La proprietà pubblica e la proprietà privata non esauriscono le possibili forme di proprietà: ad una terza forma, che non è né proprietà pubblica né proprietà privata, fa riferimento il già ricordato art. 43 della Costituzione, là dove parla delle imprese (e, quindi, dei relativi mezzi di produzione) sottratte ai privati e attribuite a «comunità di lavoratori o di utenti». È ciò che, con altro linguaggio, si definisce come «autogestione»: una forma di proprietà collettiva per la quale il diritto di godere e disporre dei mezzi di produzione spetta agli stessi lavoratori o agli stessi utenti dell’impresa. Per questa parte l’art. 43 non ha trovato attuazione; non abbiamo, perciò, concrete realizzazioni, nel nostro paese, della proprietà sociale». Ivi, pag. 120.

[34] Relazione della Commissione per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, del 14 giugno 2007. La Commissione sui Beni Pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, è stata istituita presso il Ministero della Giustizia, con Decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.

[35] Ivi.

[36] Giorgio Agamben, Homo Sacer. Edizione integrale (1995-2015), Quodlibet, Macerata, 2018. In particolare, vedi Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Homo sacer IV, 1, dove interpreta il francescanesimo come «Il tentativo di realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto», ritenendolo, però, del tutto impensabile nella presente società.

[37] Raoul Vaneigem, Il movimento del Libero spirito. Indicazioni generali e testimonianze sugli affioramenti della vita alla superficie del Medioevo, del Rinascimento e incidentalmente della nostra Epoca, Nautilus, Torino 1995.

[38] Strumenti per una demistificazione di questi argomenti potrebbero essere oltre ai testi di Renato Curcio (L’impero virtuale, 2015; L’egemonia digitale, 2016; La società artificiale, 2017, L’algoritmo sovrano, 2018; tutti editi da Sensibili alle foglie) e di Ippolita (Open non è free. Comunità digitali tra etica hacker e mercato globale, Elèuthera; Tecnologie del Dominio. Lessico Minimo di Autodifesa digitale, Meltemi, 2017, ecc.) quello di Philippe Aigrain, Causa comune, Nuovi Equilibri, Viterbo, 2007; e quello di Nicola Durante, Max Stirner e la controcultura hacker, ai quali si rimanda.

[39] L’esperienza di “Mondeggi Bene Comune Fattoria Senza Padroni” dal 2013 porta avanti il recupero della fattoria di circa 200 ettari di terreno agricolo, delle case coloniche e della villa monumentale lì presenti, e lavora per contrastare l’alienazione della fattoria che la Provincia di Firenze (Città Metropolitana) vuole fare, rivendicando la terra come bene comune, grazie alla comunità che la presidia, la cura e la custodisce.

[40] Cfr. Murray Bookchin, Democrazia diretta, Elèuthera, Milano 1993: «la prospettiva municipalista libertaria di trasformare villaggi, paesi, quartieri e città in una nuova sfera politica sta in contrapposizione con lo Stato-nazione e non è affatto un suo partner supplementare o parallelo», pag.28.

[41] Per Bookchin “l’ecologia della natura diviene ecologia sociale” e la lotta ecologista diventa una lotta contro il potere, cfr. Murray Bookchin, Post-Scarcity Anarchism. L’Anarchismo nell’età dell’abbondanza, La Salamandra, Milano 1978 e L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, Elèuthera, Milano 1988.

[42] «Un mondo così contaminato dalla gerarchia, dal comando e dall’obbedienza esprime il suo spirito autoritario nel modo in cui c’è stato insegnato a vederci: come oggetti da manipolare, come cose da usare. Da questa immagine di noi stessi, il nostro modo di concepire la realtà si è esteso all’immagine di natura esterna, per scoprire che abbiamo reso sempre più minerale e inorganica sia la nostra natura sia la natura esterna. Abbiamo pericolosamente semplificato il mondo naturale, la società e la personalità, a tal punto che è seriamente minacciata l’integrità delle forme complesse di vita, la complessità delle forme sociali e l’ideale di una personalità poliedrica». Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, op. cit., pag, 534. [corsivo e grassetto mio].

[43] Il nazionalismo non è il frutto della comunità, ma dello Stato; ma se ad una comunità viene data una dimensione territoriale gestita politicamente (gerarchicamente), il nazionalismo diventa facilmente l’ideologia identitaria di questa comunità, che è tutt’altro della cultura della stessa comunità. In merito cfr. Rudolf Rocker, Nazionalismo e Cultura. Volumi I e II, Edizioni Anarchismo, Catania, 1977, dove sostiene che «Potere e cultura sono opposti inconciliabili nel senso più profondo …. Il potere sta sempre in individui o in piccoli gruppi di individui; la cultura ha invece le sue radici nella comunità».

[44] Un approfondimento diverso, ma interessante, del concetto di “comunità” lo ha sviluppato Jean-Luc Nancy; ne La comunità inoperosa, (Cronopio, Napoli 2003) sostiene che «… la “comunità” è un concetto caduco, qualunque sia la determinazione che assume» e propone di sostituire il termine “comunità” con “essere singolare plurale”.

[45] Le differenze sociali non sono più molto rappresentabili con la stratificazione in classi, perché da una parte le classi medie si sono “appiattite” e rese più labili, e dall’altra le differenze si sono ulteriormente allargate all’interno della stessa possibile classificazione. Forse la rappresentazione fra “inclusi e esclusi”, che fa vedere bene l’alterità fra le due classi, può ancora funzionare, sebbene non pienamente.

[46] Cfr. Achille Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna 1980. In questo volume Ardigò, già all’epoca, proponeva come rimedio per la crisi del sistema istituzionale, una valorizzazione dei “corpi intermedi” tra Stato e cittadino, che possano “lenire” le contrapposizioni e mutuare quanto con lo smantellamento delle politiche e strutture del welfare state non si garantisce più agli sfruttati, in un’ottica di creare legittimità al sistema.

[47] Cfr. Rudolf de Jong, Anarchismo e trasformazione sociale, Edizioni Anarchismo, Trieste 2009: «Negli anni Sessanta il vecchio centro – le società nordatlantiche – diventa scenario di nuovi “movimenti pre-politici” che nascono all’interno della società esistente: la nuova sinistra con la sua controcultura. Questo movimento sviluppò forme di lotta e d’organizzazione, una mentalità ed atteggiamenti che ricordano quelli dei movimenti pre-politici e, a volte, dell’anarchismo. Propendo a chiamare postpolitico un tale movimento. Sebbene diede una nuova spinta all’anarchismo, differisce in molti aspetti dai vecchi movimenti anarchici e pre-politici», pagg. 33 – 34. Si tratta della relazione presentata da Rudolf de Jong alla “Conferenza su Storia e Scienze Sociali” tenutasi a Campinas, San Paolo (Brasile), dal 26 al 30 maggio 1975, il cui titolo originale era “Qualche osservazione sulla concezione libertaria della trasformazione sociale rivoluzionaria”, che conclude con queste parole: «Oggi le idee che sono alla base della concezione anarchica – assumere il proprio destino nelle proprie mani, autogestione di piccole unità – non sono più considerate tipiche dei “movimenti pre-politici nelle aree periferiche”. Sono tipiche della società moderna e notevoli per i maggiori problemi del nostro tempo». Bisogna, però, ricordare che la maggior parte delle interpretazioni di questi movimenti, a differenza di questa, segue la visione politica e storicista, per la quale questi movimenti rappresentano una parte dei soggetti politici del divenire storico.

[48] Oliver Revault d’Allonnes, Destrutturazioni, Faenza Editrice, Faenza, 1976, pag. 53. Ad una logica per modelli, deterministica ed autoritaria, Revault d’Allonnes ne propone una libertaria basata su progetti.

[49] Cfr. Leonardo Lippolis, Paolo Ranieri (a cura di), La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, ed. Nautilus, Torino, 2018.

[50] Massimo Passamani, Pensieri sparsi su utopia, autogestione e inimicizia verso l’esistente, in L’ammutinamento del pensiero N.ro 3 – Bologna, marzo 1994, https://j12.org/spunk/library/pubs/ammuti/sp001618/1indice.htm.

[51] Ratgeb (Raoul Vaneigem), Contributi alla lotta rivoluzionaria destinati a essere discussi, corretti e principalmente messi in pratica senza perdere tempo, Ed. Anarchismo, Catania,1978. Tutti gli scritti di Vaneigem sarebbero da riproporre per una discussione su queste tematiche, penso alle ultime riflessioni di Raoul Vaneigem sull’esperienza di Notre Dame des Landes (esperienza autogestionaria di un’area sottratta all’intervento di “grandi opere statali”, con esperimenti sociali, sotto certi aspetti, più significativi di quelli, seppur simili, della Val Susa – NoTav), o al suo intervento alla Festa della Democrazia diretta organizzato, a Salonicco nel mese di ottobre 2010, dal “Movimento antiautoritario per la democrazia diretta” (Lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto! ); poi Ai viventi sulla morte che li governa e sull’opportunità di disfarsene, ma anche Noi che desideriamo senza fine, ecc.

[52] Vedi in merito il citato N.ro 3 de L’ammutinamento del pensiero.

[53] Paolo Ranieri, Vecchie favole intorno a un giovane fuoco. Ricordi del mio tragitto attraverso Ludd-Consigli Proletari, insieme ad alcune riflessioni che ne ho ricavato, in Leonardo Lippolis, Paolo Ranieri (a cura di), La critica radicale in Italia, op.cit., pagg. 161, 162.

[54] [Cfr. Asger Yorn, La comunità prodiga. Critica della politica economica e altri scritti, con testi di Guy Debord. A cura di Mario Lippolis, Editrice Zona, Rapallo (GE), 2000].

[55] [Ecco perché il Dio Termine era, ed ancora lo è, una “divinità formidabile”, si fonda sull’uccisione di un fratello].

[56] Paolo Ranieri, Vecchie favole, op. cit., pagg. 223 – 224.