A proposito di “Anarchismo sociale o anarchismo lifestyle” di Murray Bookchin.
Quando si vuole creare una “identità”, prima ancora di dire cosa è, si prendono le distanze dalle altre. Chiunque è però una “identità” molto complessa, per prenderne le distanze bisogna ridurla con schemi “etichettanti”, operazione che nella maggior parte dei casi significa stravolge completamente questa “identità” dalla quale ci si vuole distinguere. Quando poi queste identità sono pensieri politico-filosofici, le etichettazioni diventano spesso veri e proprie arbitrarie mistificazioni.
Se da una parte è giusto e proficuo, e forse inevitabile, attingere al pensiero, alle parole, di qualcun altro, di chi ci ha preceduto, dall’altra, praticare i “distingui” per costruire un’identità tramite questi distingui (giudizi), si ricade inevitabilmente nel meccanismo della macchina del giudizio, che crea metafisiche e idealiste verità che serviranno a dividere, con la spada del giudizio, i peccatori dai “devoti”.
Bookchin fa un’operazione del genere. Etichetta come “anarchismo lifestyle” tutto “un mondo” che fa partire da Proudhon, Godwin e Stirner fino a Foucault, includendoci le rivolte “giovanili” (facendo un pot-pourri dagli anarco-individualisti e “terroristi”, agli yuppie, al New Age, al primitivismo e agli “stili di vita incentrati su se stessi di baby boomers annoiati e dei membri della Generazione X”) e lo contrappone a qualcosa che definisce “anarchismo sociale”.
La riduzione, l’etichettamento, è basato su queste ridicole congetture, che neanche un giornalista di parrocchia farebbe:
“Il loro pedigree ideologico è essenzialmente liberale, radicato nel mito dell’individuo autonomo la cui rivendicazione all’auto-sovranità trova una conferma in “diritti naturali” assiomatici, in un “valore intrinseco”, o a un livello più sofisticato, in un ego kantiano intuito e trascendentale, generativo di tutta la realtà conoscibile. Queste posizioni tradizionali emergono nell’“Io” o “ego” di Max Stirner, che condivide con l’esistenzialismo una tendenza ad assorbire tutta la realtà dentro di esso, come se l’universo dipendesse dalle scelte dell’individuo incentrato su se stesso.
In genere gli scritti più recenti sull’anarchismo lifestyle aggirano l’“Io” sovrano e totalizzante di Stirner, mantenendo tuttavia la sua enfasi egocentrica, e tendono verso l’esistenzialismo, riciclando il situazionismo, il buddismo, il taoismo, l’antirazionalismo, e il primitivismo; oppure, piuttosto ecumenicamente, ognuno di essi in varie combinazioni. I loro punti in comune, come vedremo, odorano di un ritorno prelapsario a un ego originario, spesso diffuso, e anche petulantemente infantile, che a quanto pare precede la storia, la civiltà, e una tecnologia sofisticata – possibilmente il linguaggio stesso – e hanno dato vita a più di qualche ideologia politica reazionaria nel corso dell’ultimo secolo”.
È sconcertante l’approssimazione di questi concetti filosofici, che scade in vera falsificazione del pensiero di Stirner, che da critico radicale di ogni entità astratta, compreso l’Io [o il presunto “ego kantiano”(?)], e di ogni fondamento religioso, foss’anche sotto la veste del giusnaturalismo, diventa qui il teorico di questa accozzaglia ideologizzata, che difficilmente si può considerare come un unico soggetto e/o movimento; autore di una delle più radicale critica all’ideologia liberale, Stirner ne diventa qui il fautore. Non voglio entrare nel merito di queste falsificazioni [Stirner è uno degli autori più travisati della storia della filosofia, forse e non a caso, assieme a Nietzsche], né di quelle relative a Proudhon e a Foucault (tanto meno ai riferimenti statunitensi che non conosco), così come non entro in merito della falsa dicotomia fra autonomia e libertà [solo un inciso: la prima non ci può essere senza la seconda e pensare ad una arcaica comunità “con la vita e le leggi tribali teutoniche” dove si dà la libertà, significa negare la storia della sottomissione che porta allo Stato], perché sono troppe le categorie e le mistificazioni da confutare; ritorneranno in piccola parte queste critiche prendendo in esame la sua “proposta” di “anarchismo sociale”. Rimane, comunque sconcertante la scorrettezza dei richiami di vari pensatori, filosofi e movimenti, accomunandoli senza citare e/o esporre questi pensieri o posizioni. Per fare solo un esempio (ma ce ne sono tanti altri) si accomunano spesso i situazionisti e Baudrillard, che poco hanno a che fare fra di loro, per classificarli in fumosi etichettazioni di concetti vacui, invece, molto complessi e che sarebbero significativi, questi concetti, per una critica sociale e di conseguenza per un “anarchismo sociale” [per fare un esempio molto marginale, i situazionisti avevano come riferimento teorico il consiliarismo, la cui organizzazione politico sociale è molto simile alla bookchiniana “Comune delle comuni”, o quanto meno sono due categorie politiche che si possono confrontare].
[La critica, sacrosanta, al Libertarians non può tirare dentro le strumentalizzazioni che questi fanno di alcuni autori, convalidando le loro mistificazioni. I cosiddetti anarco-capitalisti sono una contraddizione di termini: il capitalismo non può esistere senza lo Stato; la critica al liberismo da parte anarchica è ampia, non si può ignorarla e far rientrare queste accozzaglie teoriche all’interno di una ipotetica componente dell’anarchismo. Negli anni ’70, per esempio, ci sono stati alcuni fascisti che accostavano il nazismo e l’anarchismo (col supporto anche di pubblicazioni, mal tradotti e mistificati, di noti pensatori anarchici – forse invogliati dal Salò di Pasolini, ma più verosimilmente per sostenere le fumose e ben pagate teorie degli opposti estremismi nella strategia della tensione, dicasi terrorismo statale), ma nessuno ha mai pensato di poter prendere in considerazione questi come una componente dell’anarchismo e criticarla confutando le citazioni falsificate ecc.; si è solo denunziata la provocazione fascista, considerandola per quella che era. Così bisognerebbe affrontare questi mistificatori libertarians. È invece assolutamente scorretto accomunare a questi ultimi tutti quelle altre situazioni che in forma giustizialista Bookchin definisce come individualiste e/o lifestyle].
Il capitolo “contro la tecnologia e la civiltà” merita una specifica analisi perché anch’esso è contraddittorio e “falsifica” posizioni. La contrapposizione fra Bradford e Mumford, per come viene rappresentata, è strumentale e faziosa. Sembra che faccia volutamente confusione fra macchina e la “megamacchina” e/o tecnologia: non si può contrapporre alla critica della società tecnologizzata di Bradford una citazione di Mumford sull’accettazione della scienza e della tecnica!
Il far diventare chi critica la società tecnologizzata degli “anti-tecnologici” è scorretto. È come far diventare chi critica la razionalizzazione della società capitalista degli irrazionali. Ciò sarebbe anche in contrasto con quando ha sostenuto nel suo saggio “L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia”, dove, in qualche modo riprende le analisi critiche dei francofortesi sulla “autocritica della ragione” senza farli diventare “irrazionali”. (L’eclissi della ragione di Horkheimer viene citata da Bookchin anche in questo testo per criticare un presunto individualismo autosufficiente alla vita). La logica manichea di considerare irrazionali, anti-tecnologici, o non scientifici, chiunque porti argomentazioni contro la scienza o la tecnologia, è diventata molto comune nell’ultimo periodo, per questo questo capitolo merita una più approfondita analisi, che rimandiamo.
Ma che cos’è l’anarchismo sociale? Non viene fatto uno specifico capitolo argomentato, vengono enunciate definizioni sempre in contrapposizione con il fumoso “anarchismo lifestyle”, le riporto per intero per come sono scritte nel testo e dalle quali si rileva l’inconsistenza della proposta, o quanto meno la sua approssimazione:
“… deve essere un anarchismo sociale che persegue la libertà attraverso la struttura e la responsabilità reciproca, non attraverso un ego vaporoso, nomade, che rifugge le condizioni necessarie per la vita sociale.
Per dirla in modo chiaro: tra il retaggio socialista dell’anarcosindacalismo e del comunismo anarchico (che non hanno mai negato l’importanza dell’auto-realizzazione e della soddisfazione dei desideri), e il retaggio essenzialmente liberale, individualista dell’anarchismo lifestyle (che sostiene l’inefficacia sociale, se non apertamente la negazione della società), esiste una frattura che non può essere colmata a meno di voler ignorare gli obiettivi, i metodi, e le filosofie sottintese profondamente diverse che li rendono distinguibili.” pag. 59
“… dall’anarchismo sociale che ha invece le sue radici nello storicismo, nella matrice sociale dell’individualità, e nel suo impegno per una società razionale”. pag. 60
“L’anarchismo sociale, dal mio punto di vista, è qualcosa di fondamentalmente diverso, erede della tradizione illuminista, con dovuto riguardo ai limiti e all’incompletezza di quella tradizione. A seconda di come definisce la ragione, l’anarchismo sociale celebra la mente umana pensante senza negare in nessun modo la passione, l’estasi, l’immaginazione, il gioco, e l’arte. Ma piuttosto che reificare queste cose trasformandole in categorie nebulose, esso cerca di incorporarle nella vita di ogni giorno. Ricerca la razionalità mentre si oppone alla razionalizzazione dell’esperienza; la tecnologia, pur opponendosi alla “megamacchina”; l’istituzionalizzazione sociale, opponendosi al dominio di classe e alla gerarchia; una politica autentica basata sulla coordinazione confederale di municipalità o comuni da parte delle persone attraverso una democrazia diretta faccia a faccia, mentre si oppone al parlamentarismo e allo Stato.
Questa “Comune delle comuni”, per usare uno slogan tradizionale delle prime rivoluzioni, può essere propriamente designato come comunalismo. Lasciando da parte chi si oppone alla democrazia in quanto forma di “governo”, esso descrive la dimensione democratica dell’anarchismo come amministrazione maggioritaria della sfera pubblica. Di conseguenza, il comunalismo persegue la libertà piuttosto che l’autonomia nel senso in cui le ho contrapposte. Rompe bruscamente con l’ego psico-personale stirneriano, liberale, e bohémien come sovrano di se stesso, sostenendo che l’individualità non emerge ab novo, vestita dalla nascita di “diritti naturali”, ma vede l’individualità in gran parte come il lavoro in continuo cambiamento dello sviluppo storico e sociale, un processo di autoformazione che non può essere né pietrificato dal biologismo né arrestato da dogmi circoscritti nel tempo.” pagg. 62 – 63
“In breve, l’anarchismo sociale deve risolutamente affermare le sue differenze nei confronti dell’anarchismo lifestyle. Se un movimento anarchico sociale non può tradurre i suoi quattro principi – confederalismo municipale, opposizione allo statalismo, democrazia diretta, e infine comunismo libertario – in una pratica vissuta in una nuova sfera pubblica; se questi principi languiscono come le memorie delle sue lotte passate in pronunciamenti e incontri cerimoniali; peggio ancora, se essi vengono sovvertiti dalla “libertaria” Industria dell’Estasi e dai teismi quietistici asiatici, allora la sua anima socialista rivoluzionaria dovrà essere restaurata con un nuovo nome.
Chiaramente, non è più possibile, dal mio punto di vista, che uno si definisca anarchico senza aggiungere un aggettivo qualificante che lo distingua dagli anarchici lifestyle. Come minimo, l’anarchismo sociale è radicalmente in disaccordo con un anarchismo incentrato sul lifestyle, sugli inni all’estasi neo-situazionisti, e sulla sovranità di un ego piccolo borghese sempre più avvizzito. Le due cose divergono completamente nei principi che li definiscono: socialismo o individualismo. Tra un corpo di idee e pratiche rivoluzionarie, da un lato, e un anelito errante in cerca dell’estasi privata e dell’autorealizzazione dall’altro, non può esserci alcuna comunanza. La semplice opposizione allo Stato potrebbe benissimo unire lumpen fascisti a lumpen stirneriani, un fenomeno non senza i suoi precedenti storici.” pag. 66
Questo testo di Bookchin sembra proprio un passo indietro rispetto ai suoi precedenti, non solo per la caduta di stile nell’affrontare tematiche filosofiche e politiche, anche quelle a lui care, ma anche nel proporre il municipalismo (definito ora comunalismo) da lui stesso coniato. Qui la visione dell’anarchismo sociale che propone si può sintetizzare nel suo slogan, “democratizzare la repubblica, radicalizzare la democrazia”, e nella ricerca di questo movimento dell’“istituzionalizzazione sociale, …; [di] una politica autentica basata sulla coordinazione confederale di municipalità o comuni da parte delle persone attraverso una democrazia diretta faccia a faccia, mentre si oppone al parlamentarismo e allo Stato. … esso descrive la dimensione democratica dell’anarchismo come amministrazione maggioritaria della sfera pubblica”. L’anarchismo sociale si configura quindi come un movimento propugnatore di una “politica autentica” finalizzata all’amministrazione “maggioritaria” della “sfera pubblica”. Ma qual è la dimensione di questa “sfera pubblica”, quella determinata dalla gestione statale e dal capitalismo, o altro? Questa sfera si differenzia dall’altre “sfere” che rimangono privata o che? Che differenza c’è fra una “sfera” comune e quella pubblica? Questa “politica autentica” con quali mezzi affronterà il dissenso, “incolmabile”, per esempio degli anarchici lifestyle, o di altri lumpen, si doterà di una polizia? Nulla dice di quale comunità o società debba essere protagonista di questa democrazia diretta, di come sono composte queste e come fanno a “autoregolarsi” con la “democrazia diretta faccia a faccia”; dovranno forse essere composte di soli anarchici sociali?
Dire che l’anarchismo sociale, proposto, ha le sue radici nello storicismo, ed è erede dell’illuminismo non aggiunge molto, ma rende ancor più problematico il contesto sociale a cui si riferisce. O forse no, dice qualcosa!? vediamo, ovviamente trattando il complesso argomento per sommi capi.
Innanzitutto, Kant definisce l’illuminismo come un processo che ci emancipa dallo stato di “minorità” e il cui motto può sintetizzarsi in “abbi il coraggio, l’audacia di usare il tuo proprio intelletto” [si tratta dell’“ego kantiano” di cui parla Bookchin?]; alla ragione viene affidato il compito di “illuminare” la vita dell’uomo e abbattere i pregiudizi che ostacolano l’organizzazione razionale dell’esistenza e del suo sviluppo e di conseguenza viene data alla filosofia non più la funzione di contemplazione del mondo, ma quella di trasformarlo. Purtroppo, la causa della “minorità”, o meglio della schiavitù, dell’uomo è qualcosa di più profondo dei pregiudizi, e il pensiero politico dell’illuminismo si sviluppa e cerca una visione della produzione razionale del mondo. Le forze che agiscono questa produzione sono gli uomini nella società e nello Stato; ma a partire dalla logica delle leggi (che razionalmente non sono altro che le regole per il buon funzionamento del vivere e dell’agire umano), lo Stato diventa nient’altro che lo sviluppo della società ben organizzata. Così si crea un’origine della società che si sviluppa con una finalità interna ad un processo storico. Con lo storicismo si entra nell’idealismo hegeliano dove non si può parlare di civiltà, quindi di storia, al di fuori dello Stato e prima di esso e, ovviamente, neanche dopo.
È una sintesi fatta con l’accetta, questa mia: in realtà la complessità dell’illuminismo è notevole e, per esempio, ci sono molti pensatori che a partire da Vico si sottraggono a questo “evoluzionismo” proprio della “filosofia della storia” di Hegel, introducendo i cicli e ricicli di sviluppi di alcuni fattori agenti (ci sono anche le regressioni, o i crolli! Non solo sviluppo). Ciò sposta il ruolo dello Stato nella storia a favore dell’agire sociale, che spesso si contrappongono. A quest’ultima visione si può fare rientrare quella di Kropotkin, soprattutto con il suo saggio sul ruolo dello Stato e quello sulla Grande Rivoluzione, ma anche a quella del pensiero di Proudhon e di tanti altri, anche anarchici.
Il punto, per ritornare a Bookchin, è quale agire sociale, quale società prende a riferimento lui quando parla di anarchismo sociale “erede dell’illuminismo”. Kropotkin aveva in mente le comuni di villaggio che sopravvivevano, resistevano, allo “sviluppo” della società statalista (ma che ormai è difficile trovarne anche nei posti più sperduti) alle quali affiancava l’associazionismo mutualistico nelle sue varie espressioni; Proudhon si riferiva all’associazionismo operaio ed economico che contrastando ed eliminando l’organizzazione statale, e quindi la proprietà, avrebbe potuto creare comunità, anzi associazioni e la società emancipata. Bookchin non lo dice. Parla di comunità, di “comuni”, ma non si capisce a cosa si riferisce, non si capisce neanche se dà a questo concetto l’accezione differente da quelli di società ed associazione (come effettivamente hanno). La Comune di Parigi (questo grande modello utilizzato da molti) non ha rappresentato la “comunità” di Parigi autorganizzata; è stata la comune degli insorti contro la borghesia parigina organizzata in Stato, ed è durata il tempo dell’insurrezione. Da qui tanti anarchici parlano di comunità determinata dalle condizioni della rivoluzione o della rivolta (vedi, per ultimo, Camus, Mi rivolto dunque siamo); anche molti di quelli che vengono da Bookchin classificati come anarchici lifestyle.
Il suo “comunalismo”, a ben vedere, non si riferisce a questa visione dell’illuminismo; rientra piuttosto in quella che inevitabilmente (d’altronde ha “le sue radici nello storicismo”) sfocia nell’idealismo hegeliano e quindi nello statalismo, quand’anche rivestito di democrazia diretta.
In questo scritto Bookchin elimina tutto quanto di valido e libertario aveva rappresentato soprattutto negli scritti “Post-Scarcity Anarchism. L’Anarchismo nell’età dell’abbondanza” e “L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia”, dove affrontava il discorso dell’ecologia incompatibile con l’organizzazione sociale statalista, poiché la stessa vita, anche quella sociale, presuppone interazioni dell’unità nella diversità, che la gerarchia, lo statalismo impediscono e ostacolano (origine del vero inquinamento). Ora propone una sorte di “comunalismo” che “descrive la dimensione democratica dell’anarchismo come amministrazione maggioritaria della sfera pubblica”, ma non ci può essere interazione fra diversità nella costituzione di una maggioranza; l’artificialità di questo contesto “confederale” per la gestione univoca del “pubblico” non potrà mai avere a che fare con una “comunità”. Questa visione, inoltre, si porta dietro anche tutte le contraddizioni della categoria proprie dello Stato Nazione e soprattutto quella che vede “la sfera pubblica” come statalista e/o gestionista.
[Nelle mie modeste “Note critiche per un dibattito sugli usi civici e i beni comuni. Per l’autogestione” segnalavo come le teorie municipaliste di Bookchin potessero prestarsi ad equivoci proprio per la loro pretesa gestionista del cosiddetto “pubblico” inteso in modo statalista, riporto: “Questa teoria, però, si può prestare ad equivoci: spesso viene ridotta da logiche politiche e “gestioniste” che inevitabilmente si distanziano da quelle libertarie; la “comunità” è vista come un organismo unitario che necessita di un “governo”, quand’anche “autogoverno”; così che si continua a vedere e riproporre quella corrispondenza fra pubblico e univoca entità di gestione di questo. Non si viene fuori dalla dicotomia fra pubblico o comune, e gestione, amministrazione “generale” … statale. Anche nella “gestione dello spazio pubblico non statale”, in questa teoria, si riproduce la politica come compito, come mansione separata; benché la delega delle funzioni esecutive dell’assemblea può essere revocata ad ogni istante, il delegato, che sarebbe meglio chiamare incaricato, non acquisisce più vita indipendente in quanto “si trova ad ogni istante sorretto del braccio dei suoi mandanti che possono da un’ora all’altra lasciarlo cadere”, rimane implicito, in questa e nonostante quanto esplicitamente detto contro la gerarchia, il concetto di divisione del “sapere sociale” e la sua inevitabile gerarchizzazione pratica. ….” pagg. 12 e seg. Non ero a conoscenza di quest’ultimo testo di Bookchin, che conferma quello che pensavo fosse solo un equivoco. Rimando a queste pagine per un approfondimento, seppur marginale, anche del “pubblico” nello Stato, ovvero della crisi di queste categorie].
La categoria di comunità, che in questo testo rimane assolutamente non indagata (anzi le contrapposizioni manichei che fa Bookchin escludono le possibilità di confronti con autori e situazioni che hanno affrontato questo tema), in realtà è molto studiata, a partire dagli studi sul cognitivismo e “l’eticità del discorso” (Habermas e Apel) fino ad una serie di analisi filosofiche che dagli anni ottanta dello scorso secolo ne hanno sviscerato i connotati (mi riferisco soprattutto a: La comunità inoperosa e Essere singolare plurale di Jean-Luc Nancy, La comunità inconfessabile di Maurice Blanchot, La comunità che viene di Giorgio Agamben, Communitas: Origine e destino della comunità e Termini della politica: Comunità, immunità, biopolitica di Roberto Esposito).
Il chiarimento su questo concetto, soprattutto per un anarchismo che si vuole “sociale” o “comunitario”, mi sembra indispensabile e non può ignorare questi interessanti studi.
A conclusione di questa “recensione” è doveroso affrontare un ultimo nodo di questa proposta.
Bookchin dice: “Se non vogliamo che una visione libertaria di sinistra della società futura scompaia in un demi-monde bohémien e lumpen, essa deve offrire una soluzione ai problemi sociali, non svolazzare arrogantemente da uno slogan al successivo, schermandosi dalla razionalità attraverso una pessima poesia e grafiche volgari. La democrazia non è antitetica all’anarchismo; né il governo della maggioranza e le decisioni non consensuali sono incommensurabili rispetto a una società libertaria.
Che nessuna società possa esistere senza strutture istituzionali è evidentemente chiaro a chiunque non sia stato stupefatto da Stirner e dagli altri come lui. Negando le istituzioni e la democrazia, l’anarchismo lifestyle si isola dalla realtà sociale, così da poter essere ancora più furioso, ma di una rabbia futile, continuando a essere perciò solo una bravata sottoculturale per ragazzi creduloni e consumatori annoiati di indumenti neri e poster estatici. Sostenere che la democrazia e l’anarchismo sono incompatibili perché ogni impedimento ai desideri di anche solo «una minoranza di uno» costituisce una violazione dell’autonomia personale, vuol dire propugnare non una società libera, ma la “collezione di individui” della Brown; in breve, un gregge. A quel punto l’“immaginazione” non potrebbe più andare al “potere”. Il potere, che esiste sempre, apparterrà o alla collettività entro una democrazia istituzionalizzata e diretta, o agli ego di pochi oligarchi che finirebbero per produrre una “tirannia dell’assenza di struttura”. Pagg. 68 – 69
Mi sembrano facili i possibili riferimenti di una “antica”, ma probabilmente per Bookchin mai risolta, polemica, quella fra Merlino e Malatesta, quella appunto fra democrazia e anarchismo [Bookchin, nella sua delirante e manichea suddivisione, dovrebbe inserire anche Malatesta fra questo “anarchismo lifestyle”]. La raccolta degli scritti polemici fra Malatesta e Merlino sono incentrati soprattutto sulla proposta e speculare rifiuto del parlamentarismo, come strumento per la rivoluzione sociale, ma la sostanza della polemica si può riproporre con gli stessi concetti, chiamati con parole diverse. Il potere che “apparterrà alla collettività” non differisce molto da qualunque ideologia democratica dello Stato. Malatesta rispondeva così, in merito, a Merlino:
“Noi crediamo che il chiamare parlamentarismo o avanzo di parlamentarismo quello scambio di servizi e quella distribuzione delle funzioni sociali senza di cui la società non potrebbe esistere, sia un alterare senza ragione il significato accettato delle parole, e non possa che oscurare e confondere la discussione. Il parlamentarismo è una forma di governo; e un governo significa potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario; significa violenza, coazione, imposizione con la forza della volontà dei governanti ai governati. …”.
Non riporto tutti le altre argomentazioni (voto, maggioranza nelle decisioni, ecc.) perché sono ormai diventate anacronistiche con le stesse forme di vita associata, diffuse oggi; ma volendo si possono riprendere, perché Malatesta con lucidità estrema anticipa, per esempio le posizioni degli studiosi della comunicazione sulla formazione di un discorso eticamente sostenibile.
Quella di Malatesta è sempre stata una posizione che potremmo, con parametri diversi di quelli di Bookchin, far rientrare in una definizione di “anarchismo sociale”, dove il “soggetto agente” non è una idealizzata “comunità” o “l’istituzionalizzazione sociale” di un potere collettivo (?), ma “la costituzione di miriadi di liberi aggruppamenti” che distruggendo “i privilegi e i monopoli”, le forme di potere radicate nella società, la rivoluzionano, creandone una nuova. Riporto, come conclusione, un piccolo pezzo di uno dei suoi ultimi scritti, chiaro, che riprende con ottica diversa alcuni punti affrontati da Bookchin.
“La Rivoluzione è la creazione di nuovi istituti, di nuovi aggruppamenti, di nuovi rapporti sociali; la Rivoluzione è la distruzione dei privilegi e dei monopoli; è un nuovo spirito di giustizia, di fratellanza, di libertà che deve rinnovare tutta la vita sociale, elevare il livello morale e le condizioni materiali delle masse chiamandole a provvedere coll’opera loro diretta e cosciente alla determinazione dei propri destini. Rivoluzione è l’organizzazione di tutti i servizi pubblici fatta da quelli che vi lavorano nell’interesse proprio e del pubblico; Rivoluzione è la distruzione di tutti i vincoli coattivi, è l’autonomia dei gruppi, dei comuni, delle regioni; Rivoluzione è la federazione libera fatta sotto la spinta della fratellanza, degli interessi individuali e collettivi, delle necessità della produzione e della difesa; Rivoluzione è la costituzione di miriadi di liberi aggruppamenti corrispondenti alle idee, ai desideri, ai bisogni, ai gusti di ogni specie esistenti nella popolazione; Rivoluzione è il formarsi ed il disfarsi di mille corpi rappresentativi, rionali, comunali, regionali, nazionali, che, senza avere nessun potere legislativo, servano a far conoscere e ad armonizzare i desideri e gli interessi della gente vicina e lontana ed agiscono mediante le informazioni, i consigli, l’esempio.
La Rivoluzione è la libertà provata nel crogiuolo dei fatti – e dura finché dura la libertà, cioè fino a quando altri, profittando della stanchezza che sopravviene nelle masse, delle inevitabili disillusioni che seguono le speranze esagerate, dei possibili errori e colpe di uomini, non riesca a costituire un potere, che appoggiato ad un esercito di coscritti o di mercenari faccia la legge, arresti il movimento al punto dove è arrivato, e cominci la reazione.” In “Pensiero e Volontà” n. 12 del 15 giugno 1924
Bologna, fine agosto 2020 Vincenzo