Il “cittadino virtuoso”.

Norma dell’eccezione

Macchiavelli è diventato il modello del cittadino virtuoso, che alle democrazie odierne indica l’importanza dei valori repubblicani: la libertà e la capacità di sacrificarsi per il bene comune”.
Carlo Ginzburg

Non vi sono più dubbi sul fatto che la politica degli attuali Stati (i Principi) si basi sulla eccezionalità, sull’aver fatto diventare norma l’eccezione. Già nel “periodo” stragista con la conseguente “strategia della tensione” era palese, a chi aveva chiaro che la regia di quelle strategie e lo stragismo era (ed è) statale, che lo “stato d’eccezione” è “strutturale” alla cosiddetta “democrazia occidentale”. Anche la maggior parte delle odierne strategie politiche governative è all’insegna dell’urgenza e dell’eccezionalità, sia per gli eventi che affrontano, sia per le modalità di affrontarli, e questo già da molto prima dell’emergenza sanitaria per la pandemia da covid19. Tanto che molti parlano, giustamente, di Stato d’eccezione, di politiche che eludono quei principi democratici di controllo sull’azione governativa, basati sulla divisione dei poteri. D’altronde, Ginzburg, nel suo saggio Nondimanco. Macchiavelli, Pascal, (Adelphi, 2018), analizza come già Machiavelli ne Il Principe, nell’enunciare le buone regole dell’amministrare, nondimanco ne suggerisce sempre l’eccezione, così che l’eccezione diventa la norma della sua teoria, oggi sempre più “modello” della moderna teoria dello Stato. [Ai “nondimanco” machiavelliani Ginzburg affianca gli adattamenti, accommodements, (l’accettazione dei miracoli) di Pascal, facendo rientrare anche lui fra i teorici della ragion di Stato.]
Lo Stato d’eccezione viene regolarmente applicato in Italia non solo alle politiche della immigrazione, con la creazione di soggetti “illegali” per la propria provenienza e con la conseguente adozione di evidenti sospensioni di ogni diritto per questi soggetti che vengono reclusi in campi di concentramento (chiamati con la neolingua “di accoglienza”) [condizione derivante da una legge “ordinaria”, ma che sancisce l’eccezionalità di una carcerazione senza alcun processo e neanche senza alcun reato se non l’essere nato in un paese diverso]; ma anche in tutti quegli altri ambiti nei quali particolari eventi mettono in crisi il sistema dell’amministrazione del pubblico, in quei casi in cui bisogna, per non far perire gli Stati, “piegare spesso le leggi alla necessità” (Pascal citato da Ginzburg). Così è per gli eventi relativi ai terremoti, alle alluvioni e ai vari dissesti territoriali; così è soprattutto per tutti gli aspetti e procedure repressive e carcerarie. Così è per tutte le procedure relative alle cosiddette “grandi opere”, o anche per i “grandi eventi”, o addirittura per la gestione della spazzatura in alcune aree critiche per la reazione delle popolazioni ai soprusi e alle speculazioni criminali dei soggetti che gestiscono queste funzioni pubbliche. Più in generale, possiamo dire che oggi è evidente che le politiche neoliberali sono incapaci di gestire i processi più complessi del semplice far profitto e invocano “le mani libere” per risolvere i problemi (o per contenerne le ripercussioni), per amministrare. Le complessità fanno paura, e questa a livello amministrativo, spesso, produce vincoli (vedi quelli di carattere ambientale o di “trasparenza amministrativa” o di controllo sulle assegnazioni di incarichi/lavori (codice degli appalti), e più in generale i vincoli amministrativi derivanti proprio dall’ordinamento dello Stato democratico occidentale), si invoca e si applica lo stato d’eccezione per sospendere e eludere questi stessi vincoli (“la burocrazia rallenta”, è lo slogan dei neoliberisti).
Paradigmatico è l’estensione delle funzioni di protezione civile a molti spetti del governo del territorio e delle persone. Negli ultimi vent’anni i governi italiani hanno allargato queste competenze facendo diventare un problema di “protezione civile”, e quindi connesso alle procedure emergenziali, molti settori degli interventi pubblici dove si deve dare risposte concrete, dagli interventi di sistemazione del suolo e del territorio, agli interventi e manifestazioni istituzionali. Esemplificativo di questa “estensione” delle funzioni, di questa “nuova politica istituzionale”, è il modo di gestire il rischio idraulico, che interessa sempre più territori.
È avvenuto, in questo campo, un vero cambio di paradigma, che si realizza gradualmente con la programmazione degli interventi, o con il non finanziamento di quelli di sistemazione e adeguamento; con il finanziare quasi esclusivamente gli interventi di ripristino dei danni causati da eventi, che vengono gestiti con procedure emergenziali. Poi anche a livello legislativo l’espansione della logica della protezione civile si afferma sempre più (vedi le “riorganizzazioni” delle “Autorità di bacino” che vengono aggregati in distretti perdendo proprio la “dimensione” di bacino idrografico, o gli adeguamenti legislativi alla Direttiva alluvione 2007/60/CE, nelle quali norme viene inserito formalmente il ricorso alle azioni di protezione civile come risoluzione delle problematiche del rischio idraulico. La Regione Emilia-Romagna, con una sua riforma, ha inglobato le stesse strutture e uffici preposti a tali interventi direttamente nella Agenzia di Protezione Civile). Ad ogni alluvione o altro disastro idrogeologico viene sbandierata la necessità della sistemazione del territorio (che sarebbe meglio definire come sistemazioni delle interferenze delle urbanizzazioni con le dinamiche del suolo), ma regolarmente gli interventi si profilano secondo questo nuovo paradigma del ripristino e del risarcimento dei danni. Cioè, viene sempre più affrontato non tanto con interventi di sistemazione dei corsi d’acqua, che ridotti a canali per l’espansione urbanistica e per gli interventi Statali di “governo del territorio” hanno un insufficiente alveo per contenere le piene, ma con gli strumenti di protezione civile, cioè con l’evacuazione della popolazione che risiede nelle aree di possibili allagamenti e con il risarcimento dei danni. Si è costituito un sistema di allertamento nazionale di protezione civile che monitora le previsioni meteo alle quali prevede gli eventi corrispettivi, facendo predisporre un “presidio territoriale” per la gestione della popolazione e del territorio. Gli esperti istituzionali ora non sono più gli ingegneri idraulici, quelli che avevano reso i corsi d’acqua dei canali, né gli “ingegneri naturalisti” che volevano riportare gli alvei a dinamiche naturali di espansione, ma i meteorologi, gli “analisti di situazione”, gli organizzatori di eventi, gli avvocati, i comandanti dei vigili urbani ecc.
In modo simile si affronta la crisi prodotta dalla pandemia da covid-19, non si interviene direttamente sulle strutture sanitarie e sulla sanità territoriale (medici di base ridotti a burocrati), cercando di rimediare allo sfacelo che le nuove politiche neoliberiste, in questi ultimi trent’anni hanno creato, a partire proprio dalla logica aziendale e privatistica della sanità pubblica, tanto meno si interviene sulla salute delle persone sulle loro capacità di risposta all’infezione, ma si interviene sulla popolazione con il contenimento delle relazioni sociali.
Il nuovo paradigma da “protezione civile” è adottato anche qui. Anche qui gli esperti non sono più i medici, ma gli epidemiologi e i dirigenti aziendali.
Le stesse suddivisioni del territorio in aree colorate in base alle allerte meteorologiche, che presuppongono le possibili allerte e interventi di protezione civile per il rischio idraulico o idrogeologico, vengono riprodotte per le limitazioni di movimento (isolamento) e per la chiusura delle attività (il cosiddetto lockdown) in base all’espansione della pandemia e alle disponibilità dei posti in ospedale.
È evidente che il non intervenire sulle strutture sanitarie entrate in crisi non è determinato da problemi economici, perché i costi di questi cambi di strategia sono evidentemente paragonabili a quelli delle precedenti strategie o maggiori.
In particolare, il modo in cui è stata affrontata l’emergenza sanitaria sta portando alla luce una crisi profonda del sistema stesso (a partire dalla razionalità, e dalla conseguente legittimità, degli apparati statali). Lo sfacelo della struttura della sanità pubblica, con la chiusura di parte della rete territoriale; le strategie adottate dagli amministratori delle stesse strutture sanitarie (ormai orientate alle logiche “aziendali”, cioè al profitto — il cambio del nome è corrisposto al cambio di sostanza delle strutture sanitarie!) che hanno in un primo momento impedito il minimo delle strategie di contenimento dell’epidemia, facendo ammalare proprio i medici e il personale medico oltre che i ricoverati, e in un secondo momento ne hanno agevolato la diffusione spostando i malati nei ricoveri per anziani; la mancanza dei dispositivi di sicurezza, che per legge vengono chiesti a qualunque datore di lavoro, ma negli ospedali e nelle altre strutture mediche e in quelle dell’assistenza agli anziani sono mancate; le incongruenze sulla tracciabilità delle infezioni affidate ad un’applicazione telefonica che non ha mai dato risultati; i piani per la gestione di eventuale pandemia che non solo non erano aggiornati, ma sono stati completamente disattesi in ogni predisposizione “protocollare”, se non ignorati a tutti i livelli istituzionali; questi sono soltanto alcuni esempi di questa crisi di razionalità. La stessa magistratura sta indagando su questo e sui profitti correlati: la funzione che ha la magistratura in questi contesti è quella di recuperare un po’ della crisi di razionalità, o almeno quella di legittimità. Ma altri esempi potrebbero farsi, e sono tanti, a partire dalle scuole, dai trasporti pubblici fino alla designazione di lavori essenziali quelli industriali e di produzione degli armamenti, per far rilevare le incongruenze e i paradossi della gestione emergenziale.
La crisi di razionalità fondamentalmente è determinata dalla “incompatibilità” della logica capitalistica, in ultima analisi, con la vita: vedi l’aspetto ambientale, della salute, della finitezza delle risorse e dello stesso mondo, a fronte della “necessità dello sviluppo economico continuo” finalizzato all’arricchimento di pochi. Quella derivante dalla emergenza sanitaria ne è solo un esempio.
Ma è chiaro che l’emergenzialità è determinata da una crisi di razionalità del sistema sanitario ed è connaturata al nuovo “modello” di gestione pubblica statale. Ed è chiaro che qui non si tratta di dover discutere il rapporto fra la salute e la medicina (la salute dovrebbe affrontarsi nell’interezza della vita, in ogni suo aspetto che le condizioni sociali determinano, con una recisione radicale delle cause che generano il suo indebolimento, il suo immiserimento; la salute non è solo quella “medicalizzata” a seguito di una “crisi” dell’organismo!). Né di discutere se adottare misure per limitare il diffondersi dell’epidemia, che comunque bisogna adottare, così come è necessario avvisare le popolazioni a rischio di allagamento perché prendano tutte le misure per limitare i danni. Così come, per usare un altro esempio “bellico” (metafora bellica usata per tutta la vicenda), in caso di un bombardamento aereo si devono usare i rifuggi. Ma la vita sotto un rifugio, o in lockdown, stando la normalizzazione dell’emergenzialità, è una sopravvivenza obbligata, non certo vita.
Qui si vuole solo proporre una riflessione su alcuni aspetti di questi cambiamenti nelle strategie del dominio del sistema statale-capitalistico.
In tutte le situazioni “emergenziali” vengono istituiti e/o nominati Commissari, task force, cabine di regia, comitato di esperti ecc., che si affiancano, o si sovrappongono, o sostituiscono gli uffici e/o i dirigenti preposti nelle ordinarie amministrazioni e che “gestiscono in deroga” alle norme gli eventi, ma soprattutto all’apparato politico/amministrativo. Così si “neutralizza” la politica, la visione tecnica e “neutra” del governare legittima anche l’eccezionalità, che apre anche ad ogni possibile forma di gestione “mafiosa” o personalistica dell’amministrazione pubblica. Logica perfettamente affine al neoliberismo.
Ma lo stato d’eccezione ha un altro aspetto, più sostanziale ancora, quello di eliminare il dissenso, quello di reprimere preventivamente ogni forma di critica e di alternativa, sospendere cioè i “diritti elementari” di quella che nelle teorie politiche viene definita “democrazia liberale”, parzialmente e formalmente presenti nell’“ordinarietà”. L’eccezionalità giustifica l’urgenza (e viceversa) e questa non permette “la messa in discussione”, né la possibilità di fare altro da quanto si dispone. “La linea di comando”, come in guerra, ma anche negli eventi di protezione civile, deve essere chiara ad iniziare dalle diffusioni dell’informazione fino alla gestione dell’intervento. Il tutto deve far capo ad una struttura piramidale ben precisa, che escluda la disobbedienza e/o la messa in discussione delle disposizioni (nelle direttive e norme di protezione civile questi concetti bellici e militareschi sono spesso espliciti). È l’aumento del “potere esecutivo” che decide direttamente come destinare le risorse pubbliche e che, nei momenti critici, può diventare direttamente controllo poliziesco/militare della società.
Nei media mainstream, direi in sintonia con questa nuova politica istituzionale, si è subito creata una strategia dicotomica di (verità/eresia) sulla gestione dell’emergenza; chiunque dissenta dalle verità definite dal governo diviene un “negazionista” (Agamben rileva in merito che si mette sullo stesso piano lo sterminio degli ebrei e l’epidemia) o un “complottista”. La scienza è divenuta una religione la cui “parola” è proferita dagli “esperti accreditati”, alla quale si può solo prestare fede. In particolare la medicina, anzi la virologia, in questo periodo è diventata la pratica liturgica con la quale si diffondono quotidianamente, non tanto i modi e i termini di una possibile cura, ma le regole di condotta dell’intera vita, perché il pericolo è rappresentato dal virus, che è il nostro nemico, e che va combattuto in ogni momento, e perché noi (peccatori poiché esseri sociali – “peccato originario” – e untori) possiamo diventare vettori del contagio epidemico.
La corresponsabilizzazione della diffusione dell’epidemia crea il modello di “cittadino virtuoso”, proprio alla maniera del “modello Machiavelli”. Anche qui “la capacità di sacrificarsi per il bene comune” si coniuga con l’eccezione e la necessità di “piegare” qualunque diritto alla ragion di Stato, che ora si esplica con il “governo dell’epidemia”. Le contraddizioni e incongruenze delle strategie governative sulla gestione della pandemia vanno in secondo piano, anzi non si possono nemmeno citare, perché l’unica soluzione del problema e quella definita, cioè la corresponsabilizzazione di tutti. Un altro esempio eclatante è quello del piano di vaccinazione: non c’è il vaccino per tutti, o ci sarà fra più di un anno, non si sa se può essere somministrato a quelli che già hanno avuto il Covid, non è del tutto chiaro se il vaccino oltre a proteggere dalla malattia potrà anche difendere dal contagio, non si sa se riuscirà a coprire le mutazioni del virus che da qui ad un anno ci saranno sicuramente, nondimanco si martella continuamente che è per colpa dei “no-vax” (un’altra categoria, simile ai “negazionisti” e ai “complottisti”, che viene affibbiata non solo a chi è contrario all’uso dei vaccini, ma anche a chiunque critichi tale strategia) se non si garantisce la copertura immunitaria necessaria per riaprire tutte le attività. Il “modello Machiavelli” sembra che servi anche a coprire la crisi di razionalità del sistema.
Paradossalmente, i cittadini più “virtuosi” sono proprio quelli “di sinistra”, per i quali è più “naturale” “sacrificarsi per il bene comune”.
Qui lasciamo in sospeso se per “bene comune” si possa intendere far sopravvivere il maggior numero di persone alla pandemia o garantire la legittimità del “piegamento delle leggi alla necessità”, ovvero, coprire comunque le incongruenze e le contraddizioni di uno stato di eccezione nella speranza di una “protezione”.

Virus e Anarchia

Io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri che mi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, e più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa, profonda e ampia diviene la mia libertà. È invece proprio la schiavitù degli uomini a porre una barriera alla mia libertà, o, che è lo stesso, è la loro bestialità a negare la mia umanità; perché, di nuovo, posso dirmi veramente libero solo quando la mia libertà, o, che è lo stesso, quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano, che consiste nel non obbedire a nessun altro uomo e nel determinare i miei atti in conformità con le mie convinzioni, mediate attraverso la coscienza ugualmente libera di tutti, solo quando la mia libertà e la mia dignità mi ritornano confermate dall’assenso di tutti. La mia libertà personale, così convalidata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito.
Bakunin

Ancora più paradossale è, però, l’adozione di tale atteggiamento “virtuoso” da parte di alcuni libertari e anarchici.
Nei loro scritti (prendo in esame soprattutto il testo del Gruppo Pandemico, Anarchia contro il virus, https://gruppopandemico.lattuga.net/contro-il-virus/, ma anche altri sono su posizioni argomentate similmente) emergono alcuni concetti sui quali è interessante fare alcune riflessioni (prendo in considerazione soltanto questi concetti, non confuto l’intero scritto, e anche per questi propongo soltanto alcune riflessioni).
Qui si parte col proporre la dicotomia individuale/collettivo, dove si dà la solidarietà alla dimensione collettiva e “l’egoismo” a quella individuale e si espone questo concetto di libertà: “Nella nostra società ideale è possibile una piena libertà solo nel rispetto di quella di tutt*. ……
…La libertà è una relazione sociale, che non esiste nel vuoto. La libertà per noi è libertà sociale, coniugata alla responsabilità e alla solidarietà, non è libertà egoistica, né stirneriana, né liberale. Molto semplicemente: la libertà che abbiamo vissuto e stiamo vivendo in questa fase di epidemia è coniugata con la solidarietà, la responsabilità e il rispetto dell’altra, della percezione del rischio e del limite dell’altra; è innanzitutto libertà di non far ammalare e di lasciare in vita il prossimo oltre che sé stesse. Questa idea di libertà ci offre un punto di osservazione sulla condizione epidemica come fatto sociale, che evidenzia due atteggiamenti contrastanti: un atteggiamento individualista ed uno solidale”.
Sembra una posizione condivisibile, soprattutto per l’aspetto della responsabilità e del rispetto dell’altro legato alla solidarietà; ma, innanzitutto si invertono i termini del concetto di libertà, per come espresso da Bakunin: non è più la libertà dell’altro che potenzia e completa la mia libertà, questa invece è “limitata” dal “rispetto di quella di tutt*”. Può chiamarsi libertà quella limitata? E ancor più problematico quesito, che cos’è la libertà sociale, contrapposta a quella individuale (egoistica)?
Se si vuole coniugare la libertà alla “responsabilità e alla solidarietà” bisogna parlare inevitabilmente di azioni e accordi che compiono i singoli, di qualità, attributi, di “proprietà” degli individui, che non sono trasferibili alla società (non hanno proprietà traslativa), altrimenti si snaturano, diventano rispetto di norme, ubbidienza a leggi. Tutt’altro che libertà. Inoltre, la stessa società così diverrebbe una idealistica persona morale; che si esprimerebbe all’unisono (in modo veramente “egoistico”) nonostante le pluralità dei suoi componenti (che vanno dalla famiglia allo Stato, dai partiti alla Chiesa, dalle organizzazioni sindacali a quelle industriali, ecc. ecc. ecc.) e nonostante le contraddizioni e i conflitti che le aspirazioni di ogni “componente” la società inevitabilmente crea.
Quand’anche nella “società ideale” si fossero eliminate le contraddizioni e le ragioni dei conflitti (possibile?), l’atteggiamento solidale lo si potrebbe intende diversamente da quella espressione dell’azione che parte dalla complicità fra i soggetti, quindi diverso dall’azione e dalla dimensione individuale?
Nello scritto, oltre alla libertà egoistica (“stirneriana o liberale”) viene più volte fatto riferimento ad un presunto atteggiamento individualista del sistema capitalistico, addirittura “esaltato dal capitalismo”. Si riproduce la vulgata dell’ideologia liberista che confonde la richiesta di mancanza di vincoli e delle “contropartite” delle “concessioni statali” per iniziativa individuale.
Vedere l’attività economica come propria di un singolo significa non vedere, o nascondere, che questa è un sistema molto più complesso di sfruttamento dell’uomo e della natura, che si basa sul monopolio della violenza, sullo Stato, no sull’individuo.
Non capisco quale individualismo esalti il capitalismo, forse nella sua ideologia e nel mascherare la condizione di isolamento degli individui che il nuovo sistema massmediatico/sociale creano. In realtà il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo da parte di una classe organizzata tramite lo Stato moderno che elargisce e garantisce i privilegi derivanti dai furti e dallo sfruttamento degli altri, grazie alla sottomissione di quest’ultimi e all’asservimento dei primi. Il mito che i capitalisti si “fanno da soli” è un’invenzione letteraria di Defoe ideologizzata dai liberali. L’arricchimento privilegiato, per alcuni anche esclusivo, può avvenire soltanto grazie ad una organizzazione tale che lo permetta e garantisce; all’interno della quale la logica individuale è definita più correttamente con arrivismo del potere che ha. Per tutti gli arricchimenti, anche quelli realizzati (fuori dallo Stato?) con pratiche mafiose o “criminali” il modello è lo stesso: un’organizzazione che territorialmente garantisce con l’uso della violenza asservimento e sottomissione, promettendo sicurezza. (Non trovo altra spiegazione alla “servitù volontaria”, al farsi sfruttare. Non è credibile, per chiunque, che intere masse di lavoratori si sottomettano alla sola volontà e alla “furbizia” di un individuo, se non ci fossero polizie, carceri, ecc. a difendere i privilegi di queste sottomissioni).
Proprio Stirner (assieme a altri), assimilato qui all’individualismo “egoistico”, è un radicale critico del liberismo e di questo concetto ideologico di libertà: semplicemente, e detto in due parole, per l’autore de L’unico, il liberale, o meglio il borghese non è proprietario di nulla, perché la proprietà privata non gli “appartiene” veramente, questa non è altro che una concessione statale, concessione condizionata. Il borghese non è altro che il frutto della sudditanza, da una parte, e del monopolio della violenza organizzata in Stato, dall’altra. Questi individualmente non hanno queste proprietà; queste capacità, derivanti essenzialmente dell’uso del monopolio della violenza, ce li hanno gli Stati, le Nazioni, “il sovrano”, che agiscono come individui egoistici. [Ignorare la critica anarchica al liberismo (non solo questa di Stirner, ma anche quella di Proudhon, Bakunin, Kropotkin, ecc.) equivale a ignorare una buona parte della storia del pensiero di questo movimento; cosa che può portare ad aberrazioni quali “anarco-capitalismo” o sciocchezze del genere che avvicinano anarchici e liberali.]
In un altro punto dello scritto del Gruppo pandemico si propone, “Contro la post-verità, il complottismo, la cialtronaggine”, una critica con la scienza, non una critica contro la scienza. Qui si sostiene che le critiche al sapere tecno-scientifico quando sono fatte “con” la scienza “colpiscono in maniera puntuale il cuore del problema, cioè le storture di stampo autoritario nella creazione, diffusione e utilizzo del sapere tecnico-scientifico”. Ma fondamentalmente non si propone alcuna critica alla scienza e alla sua funzione nel sistema capitalistico e statale, si legittima “l’autorità” della “comunità scientifica” quale depositaria della conoscenza e in particolare di quella medico-scientifica, che in questo periodo è divenuta direttamente governo. Non entrerò nel merito di queste problematiche che aprirebbero un ampio discorso; rilevo soltanto che anche qui mi sembra ci sia un’adesione al “modello Machiavelli”, che in questo caso si basa sulla accettazione fideistica della “competenza” della “comunità medico-scientifica” e della sua autorità. “Verità” confezionata per regalare tranquillanti certezze, la cui fideistica accettazione è il contrario dell’atteggiamento scientifico.
Una conclusione diversa sulla figura del “cittadino virtuoso” la faccio con un’altra citazione di Bakunin (il quale sapendo come non ci possa essere Stato senza Religione individua nel “deismo dottrinario” la nuova religione di quello borghese — vedi Dio e lo Stato):
“… A ciò si potrebbe ribattere che, poiché lo Stato è il prodotto di un contratto liberamente concluso dagli uomini, poiché il bene è il prodotto dello Stato, ne consegue che il bene è il prodotto della libertà! Questa conclusione non è per nulla giusta. Lo Stato, secondo questo ragionamento, non è il prodotto della libertà, ma al contrario è il prodotto di un volontario sacrificio e di una negazione di libertà. Gli uomini naturali, totalmente ignari del diritto, ma esposti nei fatti a tutti i pericoli che minacciano la loro sicurezza in ogni momento, allo scopo di assicurare e salvaguardare tale sicurezza sacrificano o rinunciano, più o meno liberamente, alla propria libertà; e poiché hanno sacrificato libertà per sicurezza, diventano in tal modo cittadini, ossia schiavi dello Stato. Abbiamo quindi ragione ad affermare che, dal punto di vista dello Stato, il bene non è generato dalla libertà quanto piuttosto dalla negazione della libertà.
Non è sorprendente trovare una così stretta corrispondenza tra teologia, ovvero «scienza della Chiesa», e politica, ovvero «scienza dello Stato», trovare una tale concordanza tra due ordini di idee e di realtà apparentemente così discordi eppure così simili nel sostenere il medesimo convincimento, e cioè che la libertà umana deve essere distrutta se gli uomini devono essere morali, se devono essere trasformati in santi (per la Chiesa) o in cittadini virtuosi (per lo Stato)? Eppure non siamo affatto sorpresi da questa peculiare armonia, perché siamo convinti, e cerchiamo di provarlo, che politica e teologia sono due sorelle nate dalla stessa fonte e tese agli stessi fini sotto nomi diversi, e che ogni Stato è una Chiesa terrena, proprio come ogni Chiesa con il suo paradiso particolare, dimora del Dio beato e immortale, altro non è che uno Stato celeste.

Bologna 21 gennaio 2021

Vincenzo Talerico