Repressione, solidarietà, violenza
Gli anarchici e le anarchiche del Circolo Anarchico Berneri di Bologna sugli ultimi fatti polizieschi a danno dei movimenti.
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La realtà in cui viviamo
Spesso ci troviamo a ragionare sul contesto sociale ed economico che muta, anche molto velocemente, e sulla necessità di adeguare le analisi, le lotte, eventualmente anche gli strumenti e i linguaggi, al “nuovo” entro cui la nostra critica all’esistente si sviluppa.
Se ci fermiamo un momento e cerchiamo di fotografare l’attuale situazione sociale italiana, ma non solo – che è di conflitto, non c’è dubbio – vediamo che il potere corre veloce, insieme al capitale, ai flussi finanziari e di dati, aggiornando, tecnologizzando e tessendo nuove forme di controllo, normalizzazione e repressione.
Da tempo in una Italia che sembra sopita, il conflitto sociale si va in realtà acuendo e da nord a sud, da est a ovest, si dipanano lotte, spesso dal basso, alle quali i cittadini sono quasi costretti, lotte che non possono più aspettare, che sono una necessità ormai impellente, pena la perdita del lavoro, del reddito, della casa, della possibilità di vivere in un ambiente non contaminato da nocività di varia natura.
Dalle contestazioni delle politiche monetarie internazionali alle meschine guerre per il petrolio, dal No Dal Molin al No Tav, dalle mobilitazioni contro la privatizzazione dell’acqua a quella contro il ponte sullo stretto di Messina, dalle migliaia di operai che sempre più si oppongono con scioperi, picchetti e occupazioni a cassa integrazione, licenziamenti e ricatti, alle migliaia di studenti medi e universitari ben determinati a non farsi portar via ciò che di buono e pubblico è rimasto nell’istruzione. E ancora dalla rivolta dei migranti sfruttati di Rosarno, Brescia, Reggio Emilia, Massa ecc. ai roghi di rifiuti in Campania, alle rivolte nei Centri di Identificazione ed Espulsione e a Lampedusa, dalle mobilitazioni contro il “ritorno” al nucleare alle occupazioni delle scuole elementari, dall’indignazione per le infamie commesse attorno al terremoto in Abruzzo allo schifo delle leggi ad personam, dalle situazioni insostenibili nelle carceri e negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ai morti ammazzati dalle forze dell’ordine… E ancora guardando appena fuori dai confini italiani vediamo malcontento, scioperi e rivolte: succede in Francia, in Spagna, e poi in Grecia, in Libia, in Egitto, in Tunisia, in Siria e chissà dove ancora.
È difficile elencare in maniera completa le situazioni di conflitto che si vanno via via scatenando, alcune le conosciamo, altre no: quel che è certo è che ormai molti si stanno rendendo conto che “chissenefrega della crescita del PIL se tanto poi stiamo tutti peggio”.
Ecco che in un quadro del genere le sicurezze dei governanti tentennano, soprattutto davanti ad una perdita di consenso nei confronti della politica tutta, che a destra, al centro come a sinistra, non è più in grado di intercettare con la propria retorica da propaganda le istanze sociali. Il popolo che sovrano non è, e non è mai stato, sta invece sperimentando forme di autorganizzazione, forme autogestionarie e di cooperazione, forme di rivendicazione, di lotta ed emancipazione, tutte dal basso, che fanno paura al potere
Il punto è questo: in ogni dove le lotte sociali si vanno radicalizzando e il potere, nell’immediato, non può far altro che rispondere col braccio armato, deve arginare, mettere a tacere, nascondere, insomma reprimere il dissenso, che ormai si è insinuato nelle maglie della società, dove la sfiducia in questo sistema dilaga. E per fare ciò criminalizza le lotte sociali e colpisce la libertà d’espressione.
Coloro che da sempre sono attivi nelle lotte, di classe, antirazziste, ecologiste, anticapitaliste, coloro che in forma più o meno organizzata, sono sempre stati all’interno di tutti quei movimenti che si sviluppano prevalentemente dal basso alla ricerca di una reale giustizia sociale, come gli anarchici ad esempio, sono maggiormente colpiti dalla repressione e più duramente.
In vista di un futuro sempre più grigio, difficile e conflittuale, per smorzare le lotte o per colpirle duramente, il potere ha nuove formule per reprimere.
Dall’associazione sovversiva all’associazione per delinquere
Dopo l’emergenza “terrorismo” della fine degli anni ’70 e i primi degli anni ’80 dobbiamo arrivare al dopo Napoli e Genova nel 2001 per vedere proliferare le inquisizioni che imputano ai dissidenti l’associazione sovversiva. Migliaia sono i processi intentati nella penisola a suon di 270-270bis-305-306, etc.
Di questi la stragrande maggioranza hanno lasciato il ministero degli interni che li intentava a bocca asciutta.
Ora, a metà maggio 2011, abbiamo registrato la condanna di due giovani spoletini per essere parte della Federazione Anarchica Informale; niente di più assurdo! (http://www.osservatoriorepressione.org/2011/05/il-tribunale-di-terni-condanna-per.html).
Tutte le udienze del processo sono state ampiamente documentate dal “Comitato 23 ottobre” e dimostrano l’infondatezza delle accuse e l’assurdità della condanna avvenuta, appunto, per “creare un precedente” come ha sostenuto la PM Comodi.
In questa primavera 2011 segnatamente a Bologna e Firenze, sembra profilarsi però una nuova “tattica” processuale: anziché di associazione sovversiva (arma spuntata) si accusano gli attivisti di associazione per delinquere (416-416bis).
Tecnicamente questo evita alla magistratura di dover dimostrare che l’associazione abbia finalità “eversive” e che i delitti siano di tipo “violento”, cose che in più casi sono state smontate dalle difese e permette agli inquirenti di concentrarsi sulla continuità dei delitti e sugli aspetti meramente associativi. Contemporaneamente non cambia il senso dell’accusa essendo anche il 416-416bis un reato contro l’ordine pubblico. L’accusa si avvale quindi dell’insieme dei dispositivi (compreso l’allarme sociale che prevede ampia diffusione a mezzo stampa delle accuse e delle circostanze d’accusa) dei 270 et similia senza doverne assumere il carico.
I reati associativi, inoltre, danno la possibilità di perseguire non solo gli imputati di qualche delitto ma anche loro sodali in virtù del fatto che <<gli associati, infatti, vengono “…per ciò solo…” puniti cioè per il solo fatto di appartenere all’associazione, indipendentemente dalla commissione o meno dei delitti contemplati dal programma di delinquenza questo perché il semplice fatto di essere a conoscenza dell’esistenza di una associazione per delinquere genera inevitabilmente “allarme sociale” ovverosia mette in pericolo la tranquillità e la pace pubblica. Come si può notare, ciò costituisce una vistosa eccezione al principio generale sancito dall’art. 115 c.p. secondo cui “Salvo che la legge disponga altrimenti…” non è punibile colui il quale si accorda allo scopo di commettere un reato, quando l’accordo non sia seguito dalla commissione del reato medesimo. Il legislatore penale del ’30 evidentemente ha ritenuto che la minaccia all’ordine pubblico derivante dall’esistenza stessa dell’associazione criminosa giustificasse l’anticipazione della soglia di punibilità al livello del pericolo costruendo così una tipica fattispecie di pericolo.>> (da Wikipedia)
Più chiaro di così!
Oltre ai risvolti giuridici vi è inoltre un evidente intento semantico: le emergenze sociali sono fenomeni delinquenziali e come tali vanno trattati.
I fatti
Veniamo ai fatti specifici: nei primi giorni di aprile trecento uomini tra carabinieri e polizia hanno perquisito sessanta compagne e compagni in giro per l’Italia. Cinque militanti attivi a Bologna sono stati arrestati, a una decina sono state affibbiate varie misure cautelari (foglio di via, obbligo di firma ecc). Il centro di documentazione anarchica Fuoriluogo di via S. Vitale è stato sigillato e posto sotto sequestro dall’autorità giudiziaria. L’accusa è associazione per delinquere. L’aggravante di “eversione dell’ordine democratico” è caduta dopo pochi giorni. Come accennato, tale aggravante non ha mai avuto in realtà molto fortuna. Un’analoga operazione condotta nel 2005 in Emilia-Romagna non ha dato esiti per gli inquisitori: gli attivisti sono stati tutti prosciolti nel maggio del 2010. Allo stesso modo, le numerose e reiterate richieste dell’allora Pm Giovagnoli contro vari esponenti dei movimenti bolognesi hanno dato esito negativo, portando sempre allo stralcio dell’eversione in sede di Tribunale del Riesame.
Eppure rimane un’accusa pesante, quella di associazione a delinquere. Fin da subito i compagni in galera sono stati oggetto di una campagna mediatica calunniosa, ma i giornalisti non hanno fornito ai lettori nessun dato certo. Perché? Perché fatti “di delinquenza” non ce ne sono: a tenere insieme il tutto è un reato di stampa stampa clandestina, violazione della “famosa” legge del 1948. Gli altri reati di cui i compagni sarebbero accusati sono assolutamente minori e ascrivibili a un diritto al dissenso del tutto normale in democrazia.
Siamo di nuovo alla caccia alle streghe: le idee che danno da pensare alle autorità sono demonizzate, le prassi che a queste idee si accompagnano vengono criminalizzate. I procedimenti giudiziari in corso su e già per l’Italia sono innumerevoli. Per esempio mentre scriviamo a Torino due anarchici sono sotto processo per diffamazione e minacce nei confronti di Mario Borghezio, europarlamentare della Lega Nord e noto razzista e fascista non pentito, perché alla vigilia del 25 aprile del 2010 davanti alla sede della Lega apparve un fantoccio con la faccia di Borghezio appeso a testa in giù, come Mussolini a piazzale Loreto. Manifesti analoghi furono affissi in città. Un gesto simbolico per mostrare che il fascismo è al governo e in parlamento.
Nel febbraio 2010 sempre a Torino altri compagni sono finiti in carcere e hanno subito misure cautelari ancora per associazione a delinquere. Le autorità hanno messo insieme ad arte episodi “minori” e tra loro diversissimi: il copione è sempre lo stesso.
Ancora: in questi giorni 12 compagni comunisti devono rispondere al Tribunale di Bologna “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” (art. 270 bis c.p.). In realtà l’inchiesta si era conclusa nel 2008 ancora una volta con una sentenza di “non luogo a procedere perché il fatto non sussiste”: ma la procura di Bologna ha fatto ricorso in Cassazione e ora riprende il procedimento, ulteriore segnale che i giudici non vogliono mollare l’osso.
Come scrivono i due compagni sotto processo Torino “se non si può dire che Borghezio è un fascista e un razzista, se per questo si rischia una condanna, se ne va quel che resta della libertà di dire e di fare. È in gioco la possibilità di criticare l’ordine costituito. È in gioco libertà di tutti”.
In questi momenti alle compagne ai compagni spetta di restare al proprio posto con lucidità e fermezza, continuando l’attività di anarchici inseriti nelle lotte sociali, contro il razzismo, il sessismo, il classismo dilaganti.
Ai democratici spetterebbe di avere, almeno, un sussulto in cuor loro.
La questione della violenza
Chi propaganda la repressione contro i dissidenti sostiene le sue argomentazioni accusando i dissidenti stessi di essere violenti.
In realtà la violenza è proprio quella esercitata dai repressori che sono parte integrante dello stato.
<<Nonostante guerre, nonostante repressioni sanguinarie dei popoli in lotta, condotte dai poteri statali, continuiamo a vedere associata la parola “anarchia” a parole come violenza e terrorismo […] è lo stato il soggetto che per eccellenza esercita coazione, fisica e morale, sui cittadini, sotto minaccia di leggi, dispositivi, norme, l’istituzione di carceri, di manicomi giudiziari, sostenute dal monopolio esclusivo dell’uso delle armi e del segreto di stato al fine di conformare gli individui ad un sistema di gerarchie e valori autoritari e proprietari.
Lo Zingarelli definisce l’aggettivo “violento”: “di ciò che, nella teoria o nella pratica, si fonda sull’uso sistematico della forza fisica e delle armi”; e ciò “che si verifica, si manifesta o si svolge con impeto furioso, con indomabile forza, con energia incontrollata e distruttrice”.
Emerge quindi una doppia possibile lettura del termine “violenza”: l’uno legata ad un uso sistemico proprio di una struttura stabile di tipo militare, caratteristica di ogni sistema gerarchico, l’altro espressione di uno stato di malessere e di oppressione che determina una risposta spontanea di tipo insurrezionale”.
Chi esercita la repressione conduce, sul fronte interno, una guerra del tutto simile e speculare a quelle che si combattono al di fuori dei confini dello stato; le così dette guerre non sono altro che repressioni di fenomeni che mettono in discussione gli interessi dei governi e delle classi dirigenti. È evidente per molti che la scusa “umanitaria” è sempre più contraddetta dallo sviluppo degli eventi che si succedono nei conflitti.
Così come gli avversari di guerra sono nemici, terroristi, “non umani”, così gli oppositori al governo e a questo sistema di dominazione vengono chiamati delinquenti. Ma chi sono a questo punto i malfattori?!
Non è solo l’”anomalia” berlusconiana che determina leggi fatte ad uso e consumo del potere e che repri me chiunque metta in discussione gli interessi del governo: il capo dello stato ha la faccia tosta di dichiarare “non siamo in guerra con nessuno” mentre caccia bombardieri con i colori dello stato italiano stanno bombardando in Libia, carri armati con il tricolore sparano in Afganistan, ecc.
Anche sul versante delle così dette libertà civili abbiamo assistito ad una emergenza che ormai dura da più di 30 anni: leggi contro il diritto di espressione, contro il diritto di associazione, contro il diritto di sciopero, contro il diritto di manifestare. Non siamo solo noi, i nemici dello stato, a dire che negli ultimi decenni si configura una vera e propria “torsione” del diritto. Uno degli esempi più eclatanti è dato dalle leggi sull’immigrazione che fanno dello stato italiano uno stato razzista e segregazionista.
A tutto questo è necessario opporsi attivamente, tenendo bene a mente una questione:
“L’abbinamento anarchia-violenza è voluto dal potere per depotenziare la proposta sociale anarchica, per screditarla e ridurla a puro fenomeno ribellistico: l’autogestione popolare è antagonista allo Stato e va quindi combattuta con ogni mezzo, sia fisico che culturale.
Averne coscienza vuole dire non offrire al potere occasioni per incrementare la sua oppressione e la sua violenza ma lavorare per la costruzione di quell’unità e di quella forza sociale che uniche possono abbattere il sistema classista ed autoritario ”.
(citazioni da Umanità Nova del 24.4.2011).
Rispondere alla repressione
Per contrastare i tentativi di criminalizzazione delle attività di dissenso, protesta e contestazione è pratica consolidata l’esercizio della solidarietà. Essere solidali significa riconoscere come “un torto fatto ad uno sia un torto fatto a tutti”. Questo indipendentemente dal grado di coinvolgimento nel torto subito.
La solidarietà si esprime nel difendere “l’onore” delle cause del perseguitato, nel denunciare le vessazioni che subisce, nel dargli sostegno materiale e morale affinché abbia possibilità e forza per difendersi dalla persecuzione.
La solidarietà è uno degli elementi costitutivi dei movimenti che contestano l’ordine delle cose presenti. Nelle dinamiche dei movimenti di lotta, di opinione, culturali e sociali non ci sono vincoli associativi particolari se non un senso comune della direzione di marcia, degli obiettivi da conseguire, degli interessi e delle libertà da difendere o affermare. Tendenzialmente questi movimenti allargano gli spazi di libertà per tutti.
Per rompere la morsa repressiva è indispensabile allargare la pratica ed il sentimento della solidarietà.
La repressione si avvale di pratiche criminalizzanti proprio per produrre isolamento dei perseguitati, una loro separazione dagli altri soggetti in lotta, una possibile riprovazione delle loro azioni per rendere la solidarietà nei loro confronti non esercitabile. Ottenuto l’isolamento le misure penitenziarie saranno le più efficaci per normalizzare il soggetto dissidente.
Vi sono però delle tendenze all’interno dei movimenti che rompono la pratica solidale esaltando i caratteri differenziali dei comportamenti e delle parole. Questo produce un indebolimento dei movimenti e avvia una spirale perversa nella quale la repressione rischia di allargarsi.
Ad esempio non tutti sono disposti, per vari motivi, a esplicitare una qualche forma di complicità a chi è perseguitato, tanto meno se essa è espressamente richiesta. Infatti la “complicità” ha ampi risvolti controproducenti: è una pratica esclusiva ed escludente, che porta all’isolamento di determinate fasce del movimento, e a una loro maggiore “esposizione” ai riflettori sbirreschi.
Forse c’è bisogno di un cambio di vocabolario ed un ribaltamento del senso: chi è colpevole veramente? E di che cosa? Ebbene colpevole è lo stato, ed i suoi complici. La società del capitale che sfrutta e opprime, che rinchiude e bombarda, e poi nascondendosi dietro la parola democrazia, colpevolizza e strumentalizza le ribellione di cui essa stessa è causa.
In senso lato siamo convinti che non sia il “nucleo d’acciaio” o il “pugno di uomini valorosi” l’elemento capace di realizzare quell’uguaglianza, quella libertà, quella solidarietà per tutte e tutti che rimangono i principi ed i fini ultimi dei movimenti di emancipazione.
Sia per avanzare nel processo di emancipazione, sia per contrastare la reazione a questo processo è necessario allargare la partecipazione di massa alle istanze dei movimenti. Sviluppare la solidarietà al di là delle specificità circa le modalità di lotta e gli obiettivi (tutti intermedi e/o parziali); essere elemento unificante delle soggettività in movimento. Per far questo un’attitudine plurale capace di valorizzare i molteplici approcci all’emancipazione è elemento fecondo.
In senso contrario vanno quelle tendenze e quelle pratiche che esaltano le specificità e ne fanno elemento differenziante, identitario e settario.
Sul terreno della lotta alla repressione è indispensabile allargare il coinvolgimento, l’inclusione, la partecipazione anche a quella “società civile” che non necessariamente (sia per condizioni oggettive che soggettive) partecipa ai movimenti di lotta oggetto della repressione.
Per far questo, in una prospettiva plurale e solidale, è necessario dare vita e/o rafforzare le associazioni, le reti, i patti di “mutuo soccorso”; reti che abbiano mezzi e strumenti di contrasto alla repressione (anche nel campo giuridico) ma che siano principalmente il luogo della solidarietà comune, il contesto nel quale si sconfigge l’isolamento, il mezzo per contrastare l’annientamento che una politica della normalizzazione vuole imporre.
Alla luce di quanto scritto esigiamo la liberazione di tutti i compagni e le compagne chiuse nelle galere e il rigetto delle misure cautelari.
Invitiamo d’altra parte tutti a spezzare l’isolamento di chi è privato della libertà, a sensibilizzare gli ambienti a noi più vicini al fine di allargare le mobilitazioni in favore degli arrestati.
E’ utile altresì dare solidarietà concreta: per quanto riguarda gli indagati di Bologna si può fare un versamento sulla Postepay n. 4023 6006 0259 8221 intestata ad Anna Morena.
Per gli indagati di Firenze il numero di conto corrente postale è 9563625, intestato al Comitato Firenze 4 Maggio, indirizzo: borgo albizi 26, 50122 Firenze; per fare un bonifico il beneficiario è il Comitato Firenze 4 Maggio indirizzo: borgo albizi 26, 50122 Firenze, codice IBAN: IT16N0760102800000009563625.