Cucine resistenti. Le mense autogestite dei confinati sotto il regime fascista

Cucine resistenti

Le mense autogestite dei confinati sotto il regime fascista

 25 aprile 1945-25 aprile 2014: nell’ambito dell’iniziativa antifascista Pratello R’esiste siamo in piazza insieme a Eat the Rich! Una rete di cucine, mercati e laboratori di autoproduzione, gruppi di acquisto e distribuzione che a partire dalla risposta alla materialità dei bisogni vuole sovvertire lo stato di cose attuale, costruendo possibilità di resistenza ed attacco alla miseria diffusa e crescente. Alimentazione & Antifascismo. Con queste due parole il 25 aprile riannodiamo i fili della memoria, guardiamo al passato per vivere un presente degno e immaginare un altro futuro. Dedichiamo queste righe che seguono alla nostra compagna Maria Zazzi, anarchica e confinata a Ventotene, una donna “mite” col cuore da guerrigliera.

 Sono passati quattro anni dalla marcia su Roma: è il novembre del 1926, quando Mussolini, scampato a tre attentati nel corso di un anno, promulga le leggi cosiddette “fascistissime”.

Queste, tra le altre cose, reintroducono nel codice il confino di polizia per gli oppositori, misura già usata a fine Ottocento contro anarchici e socialisti.

Per essere spediti al confino basta spesso un solo gesto, come nel caso di cinque persone sorprese nel settembre del 1931 a lasciare un fiore sulla tomba di Michele Schirru, l’anarchico sardo fucilato pochi mesi prima con l’accusa di avere progettato un attentato al duce.

Circa quindicimila saranno i deportati, chi in luoghi isolati nel centro e nel sud Italia, chi nelle isole: le Tremiti, Lipari, Ustica, Lampedusa, Ponza, Ventotene.

Le condizioni di vita nelle isole sono differenti. Tutte sono però gabbie a cielo aperto. La notte si dorme insieme in cameroni da venticinque brande e il giorno non è facile trovare un’occupazione. I divieti sono innumerevoli e pesanti sono le punizioni: la segregazione cellulare a pane e acqua, le perquisizioni anali, le frustate col nervo di bue, i colpi con i sacchetti pieni di sabbia, le bruciature alle piante dei piedi, gli spilli nelle unghie, l’acqua salata fatta ingurgitare a forza.

Comunisti e anarchici sono i due gruppi più numerosi, ma ci sono anche socialisti, militanti di Giustizia e Libertà, federalisti democratici. Tutti i confinati politici si danno forme organizzative e di resistenza: casse di solidarietà, biblioteche clandestine, conversazioni teoriche di storia e di politica che si tengono di nascosto perché vietate, spesso mentre si gioca a dama o a scacchi.

Luoghi centrali della vita al confino sono le mense, vero e proprio laboratorio di resistenza e autonomia, di elaborazione di idee e di strategie di lotta. Inizialmente divise per regione di provenienza (e per relative abitudini alimentari), su volere del gruppo comunista sono poi divise a seconda dell’appartenenza politica.

Sono autogestite dai confinati, in sei, otto e anche più: mettono in comune il proprio misero sussidio giornaliero (la “mazzetta”), prendono in affitto una stanza, l’imbiancano, costruiscono tavoli, panche, sgabelli, comprano stoviglie e posate. Per tovaglia dei giornali vecchi e per fornello può bastare anche una vecchia latta di petrolio. Dall’aspetto non sono molto diverse dalle osterie dei quartieri popolari di prima del fascismo. Vengono preparati tre pranzi al giorno.

Il servizio di cameriere e lavapiatti viene fatto a turno, mentre il cuoco è fisso ed è remunerato, libero nel pomeriggio della domenica e sostituito da un compagno.

I prodotti alimentari vengono acquistati all’ingrosso direttamente dai produttori presenti sulle isole.

Cosa si mangia? Dipende dalle isole e dal periodo. E dall’abilità del cuoco: alcuni hanno una certa capacità e le loro tavole sono particolarmente affollate. È il caso del comunista Amadeo Bordiga e dell’anarchico Spartaco Stagnetti. Napoletano il primo, romano il secondo, le loro specialità sono molto gradite ai compagni.

Spesso il cibo è scarso, altrettanto spesso si mangia minestrone, minestra di ceci, patate fritte, cicoria e raperonzoli, formaggio, frutta cotta e marmellate. Più di rado la pasta asciutta (olio, aglio e peperoni), la carne (uccelletti) e il pesce (baccalà in umido). Quasi tutti bevono vino, ma alcuni commensali decidono in libertà di rifiutarlo, per non lasciarsi annebbiare la mente: sono gli “acquatici”, che hanno una mensa solo per loro.

Il primo maggio, mentre si indossa, nonostante i divieti, la cravatta rossa, o il fiocco nero alla lavallière, la tavola è imbandita con fiori rossi e viene cucinato qualcosa di speciale, come il polmone lesso o la testa di maiale in insalata. Dopo pranzo si dà voce ai canti della tradizione sovversiva.

Tutti i giorni a tavola si discute della vita quotidiana e di politica: della sconfitta del Biennio rosso, dell’organizzazione specifica e del sindacato, delle prospettive della lotta antifascista, delle eventuali alleanze con gli altri partiti della sinistra, della Russia sovietica, della Spagna.

Sempre a tavola si organizzano le proteste collettive: contro l’obbligo del saluto romano – lotta vittoriosa in cui gli anarchici sono i più tenaci al prezzo di centinaia arresti e di anni di carcere – contro ulteriori restrizioni del tempo libero e della possibilità di spedire e ricevere lettere. Le forme di protesta sono molteplici: si attua lo sciopero della corrispondenza così da suscitare allarme e proteste da parte di familiari e amici che a loro volta riescono a mettere sotto pressione il regime, si rimane chiusi tutto il tempo nei cameroni rifiutandosi di uscire per giorni, si scrivono articoli sulle condizioni inumane del confino che attraverso qualche marinaio compiacente arrivano ai giornali antifascisti dell’esilio.

Nel 1939, con l’inizio della guerra, la mancanza di cibo diventa drammatica e ci si deve fare il minestrone con l’erba, qualche castagna secca e poco più.

Bisogna aspettare il 25 luglio 1943 per vivere l’emozione della caduta di Mussolini: i suoi ritratti vengono staccati dalle pareti della direzione e distrutti, le scritte fasciste sui muri cancellate, i gruppi politici liberati a scaglioni, a partire dai giellisti a finire dai comunisti.

Gli anarchici invece, ritenuti elementi antinazionali dal governo di Badoglio, non sono liberati, ma a decine deportati e internati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari, in Toscana.

Qui conquisteranno la libertà con le proprie mani, subito dopo l’8 settembre 1943, con la rivolta e l’evasione in massa.

I compagni e le compagne del Circolo Anarchico Berneri di Bologna