Anarchia! Le radici storiche del Circolo anarchico “C. Berneri”

Anarchia!

Una chiacchierata che si è tenuta il 6 settembre 2017 al Voltone del Baraccano (BO) sulle radici storiche del Circolo anarchico “C. Berneri”, le lotte e le sperimentazioni di ieri e di oggi, dalla Resistenza al fascismo, attraverso gli anni Settanta e i decenni successivi, fino a oggi. E oltre!

A cura delle compagne e dei compagni del circolo

L’occasione per questo incontro volto a collegare i fili della memoria alle attività odierne è duplice. Nel 2017 il circolo compie 45 anni e in quest’occasione i compagni e le compagne hanno deciso di rinnovare i locali per renderli più funzionali alle varie attività che vi si svolgono all’interno.

Questi lavori sono fatti in collaborazione, tra gli altri, con il Servizio civile internazionale che ha promosso un “campo” di una decina di giorni coinvolgendo singoli interessati a contribuire da varie parti del mondo. Il Service Civil International (SCI) nasce nel 1920 su iniziativa di un giovane pacifista svizzero che insieme a volontari tedeschi, francesi e inglesi organizza un campo di lavoro a Esnes, presso Verdun, sul confine franco-tedesco, per ricostruire ciò che la prima guerra mondiale aveva distrutto. Il motto è “deeds, not words” (fatti, non parole) e l’idea è semplice e provocatoria allo stesso tempo: lavorando insieme per costruire qualcosa è impossibile diventare nemici. Il Servizio Civile Internazionale è un movimento laico di volontariato, presente in 43 paesi in tutto il mondo. Da allora promuove attività e campi di volontariato sui temi della pace e del disarmo, dell’obiezione di coscienza, dei diritti umani e della solidarietà internazionale, degli stili di vita sostenibili, dell’inclusione sociale e della cittadinanza attiva. Alla base c’è un impegno concreto a cambiare situazioni di disuguaglianza, ingiustizia, degrado, violazione dei diritti umani.

Dicevamo: 45 anni dalla apertura del circolo. Il “cassero”, così si chiama la struttura muraria di Piazza di Porta Santo Stefano n. 1, che contiene il circolo, è stato affidato agli anarchici nell’ormai lontano 1972. Lo ha assegnato il quartiere Santo Stefano dando seguito a una delibera comunale che recepiva una richiesta che da anni gli anarchici bolognesi peroravano per vedere applicato l’impegno che le forze della resistenza antifascista avevano preso, quello di risarcire i vari movimenti, sindacati e partiti del patrimonio confiscato o distrutto dalla dittatura fascista. Dopo una lunga e dura trattativa furono ottenuti con un affitto simbolico e per tempo illimitato i locali di Porta S. Stefano 1, allora in disuso. I compagni e le compagne affrontarono un esperimento di autogestione e di autocostruzione. Per quasi un anno, sotto la guida attenta di Alfonso “Libero” Fantazzini, abbatterono muri, li ricostruirono, piazzarono putrelle, fecero i pianali di legno, sistemarono porte e finestre.

L’edificio, così come l’altro cassero di fronte, fu ideato dall’architetto Filippo Antolini per ordine di Papa Gregorio XVI. Demoliti gli edifici precedenti nel 1843, venne edificato un nuovo passaggio monumentale, chiamato barriera gregoriana, costituita appunto dai due casseri. “Porta per la Toscana”, con la sistemazione della strada della Futa, da Porta Santo Stefano cominciò a transitare la gran parte del traffico e degli scambi con Firenze. Nel corso del Novecento i due fabbricati ebbero diversi usi: bagni pubblici, sede dei vigili urbani, Comitato per Bologna Storica e Artistica e sezione “Bentini” del Partito socialista italiano. In tempi più recenti, le esperienze che conosciamo: il Circolo Anarchico Berneri dal 1972 e un’altra importante esperienza di autogestione in città, Atlantide, che dal 1997 al 2015 è stato sede di collettivi e soggettività transfemministe, lesbiche, queer e punk ed è stato sgomberato in maniera tanto ottusa quanto arrogante dalla giunta Merola. La sua porta d’ingresso murata, il vuoto e il degrado in cui è lasciato volutamente l’edificio indicano chiaramente l’incapacità e la dannosità del governo (per noi: di qualsiasi governo). Certamente agli amministratori cittadini va il nostro profondo disprezzo.

 

Ciò avveniva esattamente cinquant’anni dopo la distruzione della sede storica degli anarchici bolognesi a opera del fascismo. La storia del nostro movimento si riannoda infatti con i locali della “vecchia” Camera del Lavoro di via Lame, autocostruita dalla Cooperativa Terraioli, che occupava il piano terra e dove avevano sede la Camera del Lavoro (al primo piano) e la sede degli anarchici (al secondo piano). La Camera del Lavoro di via Lame era una della tante che diedero vita nel 1912 all’Unione Sindacale Italiana (USI), costituendo quel vasto movimento sindacalista rivoluzionario che caratterizzò l’azione del movimento operaio per un decennio e che fu sconfitta solo per mezzo di una brutale dittatura.

La “vecchia” Camera del Lavoro dal 1912 si distingueva dalla Camera del lavoro confederale sia fisicamente sia perché sposava una linea antiriformista e rivoluzionaria. I suoi principi guida erano:

-conflittualità permanente

-azione diretta

-solidarietà di classe tra le diverse categorie

-autonomia e libertà di azione delle leghe

-estraneità rispetto alle contese elettorali

All’inizio del 1913 si conta che aderissero alla “vecchia” Camera del lavoro 102 leghe, mentre 282 erano quelle che afferivano alla Camera del lavoro confederale. Nel settembre del 1914, tre mesi dopo la Settimana rossa, aderivano alla prima 134 leghe con 18.000 iscritti, alla seconda 318 leghe con 41.000 iscritti, di cui 27.000 lavoratori agricoli.

Alcuni anni dopo, nel 1920, superato il trauma della Prima guerra mondiale, che aveva massacrato letteralmente tutto il fronte operaio, anarchici compresi, nella sede della “vecchia” Camera del Lavoro di via Lame prese vita quell’Unione Anarchica Italiana (UAI) che fu uno dei principali motori del tentativo rivoluzionario conosciuto come “biennio rosso” e culminato, anche nel capoluogo emiliano, con l’occupazione delle fabbriche. Sulla scia della rivoluzione russa del 1917 in Italia la tensione insurrezionale era palpabile. Gli anarchici, anche grazie al carisma di storici militanti come Errico Malatesta, furono in prima fila nel cercare di creare una unione dal basso tra i militanti sovversivi delle diverse scuole e aree della sinistra disposti a unirsi su una linea rivoluzionaria: aderenti ai vari gruppi libertari, all’USI, ai sindacati autonomi tra i quali quello dei ferrovieri, alla Federazione dei lavoratori del mare, ai giovani socialisti, al repubblicanesimo intransigente, ai massimalisti.

Nel luglio del 1920 presso la “vecchia” Camera del Lavoro delegati di oltre 700 gruppi parteciparono al Congresso dell’UAI che ratificò un Programma basato su alcuni punti fermi:

1. abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro “perché nessuno possa sfruttare il lavoro altrui e a tutti siano garantiti i mezzi per produrre e vivere, associandosi agli altri per l’azione comune”.

2. abolizione del Governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga agli altri, quindi abolizione di monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti, polizia, magistratura e di ogni istituzione dotata di mezzi coercitivi

3. organizzazione della vita sociale per mezzo di libere associazioni e federazioni di produttori e consumatori a cui ognuno volontariamente si sottomette

4. garantire i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli e a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi

5. guerra alla religione e a tutte le menzogne, anche se si nascondono sotto il manto della scienza, istruzione scientifica per tutti e fino ai suoi gradi più elevati

6. guerra alle rivalità e ai pregiudizi patriottici, abolizione delle frontiere, fratellanza fra tutti i popoli

7. ricostruzione della famiglia, in quel modo che risulterà dalla pratica dell’amore. Libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica e da ogni pregiudizio religioso.

Evidentemente tali linee direttrici volte a criticare dalle fondamenta ogni istituzione basata sul privilegio e a ricostruire da subito rapporti umani e sociali liberi dall’autorità e dallo sfruttamento non potevano essere tollerati dalle strutture dello stato, dai padroni e da tutte quelle forze più reazionarie che alimentarono e diedero manforte al nascente fascismo. In questo clima, dall’autunno del 1920, concluso il movimento di occupazione delle fabbriche, gli industriali organizzarono squadre armate: qualche centinaio di squadristi, ben tollerati da carabinieri ed esercito, diffusero il terrore nella città e nelle campagne. Solo le forze operaie di ispirazione libertaria e, in parte, i socialisti massimalisti si ponevano il problema della difesa armata, mentre socialisti riformisti e confederali predicavano la non violenza. Da lì in avanti la repressione poliziesca e giudiziaria andò in parallelo con l’attività squadrista. Arresti e bastonature si susseguivano, sempre le camicie nere erano supportate dalla polizia e persino dall’esercito, con uomini e mezzi. Nel maggio del 1922 i fascisti occuparono Bologna e il controllo della città venne assunto dalle autorità militari, mentre le squadracce distruggevano e bastonavano. La “vecchia” Camera del lavoro e la Camera del lavoro confederale vennero ripetutamente attaccate dai fascisti e occupate dalla guardie regie. Infine nell’agosto del 1922 a entrambe le Camere del lavoro toccò la stessa sorte: furono incendiate dai fascisti, sotto lo sguardo attento e la protezione di centinaia tra guardie regie e bersaglieri.

Venti anni più tardi anche nel bolognese gli anarchici sono parte attiva

A inizio anni Settanta gli anarchici bolognesi decidono che è ora di avere indietro parte del loro patrimonio storico. Molti di loro avevano partecipato alla Resistenza ma al contrario della altre forze politiche dopo la Liberazione non avevano ottenuto nessun tipo di beneficio. Tra questi Attilio Diolaiti uno degli organizzatori della 7° GAP bolognese. La sua vicenda è sintomatica della più ampia attività resistenziale dei libertari. Nel corso del 1943 è attivo a Monterenzio dove costituisce un gruppo partigiano. La base del gruppo è un mulino, il cui proprietario, aiutato dalla figlia Edera De Giovanni, aveva distribuito il grano dell’ammasso alla popolazione. Dopo alcuni atti di sabotaggio, tra i quali i tagli delle linee telegrafiche per interrompere i contatti tra Roma e Berlino, il gruppo riceve l’incarico di presentarsi per un’azione in Piazza Ravegnana la mattina del 25 marzo 1944 davanti a una bancarella di penne stilografiche. È una trappola. Circondati dalla brigata nera, i sei componenti del gruppo vengono arrestati. Sottoposti a sevizie, nella notte tra il 31 marzo e il primo aprile 1944 vengono portati alla Certosa di Bologna e fucilati contro quel muro dove oggi li ricorda una targa. Edera De Giovanni è considerata la prima partigiana caduta nella Resistenza bolognese; ad Attilio Diolaiti è stato riconosciuto il grado di capitano della 1° brigata Irma Bandiera.

Non è un caso che il circolo sia stato aperto a inizio degli anni Settanta. Nel post-’68 il movimento anarchico, a Bologna come altrove, vive una fase di sviluppo e di rinnovamento. Se l’agitazione universitaria dei mesi iniziali del 1968 spiazza l’autorità, il momento insurrezionale del maggio parigino fa diventare l’ondata di contestazione una marea irrefrenabile: il congresso internazionale anarchico che si tiene nel settembre 1968 a Carrara è la dimostrazione di un nuovo impulso delle idee anarchiche, che trovano rispondenza nelle istanze delle giovani generazioni. Al ‘68 studentesco risponde il ‘69 operaio con l’insubordinazione antiautoritaria che si fa generalizzata (300 milioni di ore di sciopero) e che ottiene una significativa redistribuzione della ricchezza. Il contratto dell’autunno caldo determina un generale aumento dei salari di quasi il 50% del loro valore precedente e una decisa riduzione dell’orario di lavoro e dalle usuali 45 ore si passa a una media di 38, circa il 15% in meno.

La Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, il più grave fatto di sangue del secondo dopoguerra, fa da spartiacque in questa fase. Sedici vittime, a cui si aggiunge Giuseppe Pinelli, noto militante del gruppo Bandiera nera, precipitato dai locali della questura di Milano tre giorni dopo.

Le autorità indicano il movimento anarchico come responsabile della strage, che è invece opera dello Stato stesso e della manovalanza fascista: un tentativo di fermare l’insubordinazione collettiva del biennio ‘68-69. Il movimento anarchico mette allora in campo tutto se stesso in uno sforzo di controinformazione e lotta. Non si tratta solo di denunciare lo Stato quale responsabile, di esigere giustizia per l’omicidio di Giuseppe Pinelli, di respingere la repressione e di provare a liberare gli arrestati, ma anche di mettere nella giusta luce l’idea di anarchia, criminalizzata come sinonimo di disordine e di violenza.

Ecco quindi che a Bologna come altrove gli anarchici si incontrano su obiettivi comuni con le varie aree della sinistra extraparlamentare, all’interno di un più complessivo movimento di contestazione

cementato da un comune sentimento di avversione nei confronti di uno Stato che ha rivelato la sua vera natura.

Tanti giovani si avvicinano al movimento, in alcuni casi divenendone militanti a tutti gli effetti. Manifestazioni, volantinaggi casa per casa, affissione di manifesti, conferenze, “processi popolari”. Anche a Bologna il fermento nell’area libertaria è notevole: il “cassero” si va ad affiancare ad altri locali e gruppi già esistenti, sparsi per la città: il circolo Carlo Cafiero (via Paglietta 15), il gruppo Kronstadt con sede in Via de’ Chiari, il gruppo Autogestione, il gruppo Volin, a cui si aggiungono le individualità e poi dal 1973/1974 diversi nuclei libertari nelle scuole (ad esempio il Fermi), all’università, nelle fabbriche (come alla Weber).

Le controinchieste sulla strage di Stato e sulla morte di Pinelli vanno di pari passo con una contestazione generale delle istituzioni: scuola, università, famiglia, fabbrica, chiesa, esercito, partito, città, manicomi (in epoca “pre-Basaglia”). Molti dei nuovi arrivati intendono la lotta anarchica come una forma di quella lotta di classe in cui si ritrovano con migliaia di altri contestatari. È una classe intesa in senso ampio, la classe degli sfruttati, degli oppressi, degli arrabbiati, dei ribelli. I temi del lavoro sono centrali in questa fase: salario, ritmi, condizioni e nocività nei vari luoghi di lavoro (fabbriche chimiche e metalmeccaniche in particolare), nelle ferrovie, nei porti, negli ospedali, nelle poste, nelle scuole. Non a caso l’inaugurazione “ufficiale” delle attività del Circolo avviene nell’estate del 1973 con un importante Convegno Nazionale dei Lavoratori Anarchici (11-15 agosto) cui partecipano circa trecento delegati.

Accanto al salario diretto ci si occupa anche di quello indiretto. La lotta per la casa è centrale in questi anni e progressivamente acquista spazio l’autoriduzione quale mezzo di difesa del salario: il movimento giovanile autoriduce i trasporti, le bollette del telefono, della luce, del gas, la mensa, gli affitti e i concerti, mentre acquistano spazio i comitati di zona, di quartiere o di caseggiato e i “mercati rossi”, anche a causa della ristrutturazione produttiva e del conseguente spostamento delle attività sociali dalla fabbrica al quartiere.

Non può stupire allora il fatto che diversi anarchici siano attivi già dai primi anni Settanta nei comitati operai autonomi, in un’area denominata autonomia di classe e, successivamente, autonomia operaia (con le lettere minuscole in quanto tendenza diffusa e non area politica specifica).

Le parole d’ordine e le pratiche del movimento sono libertarie e anarcosindacaliste: -assemblearismo

-azione diretta

-sabotaggio

-sciopero selvaggio

-autogestione

Se la lotta operaia in fabbrica e fuori rimane centrale in questi anni, sono diversi i gruppi o i “nuclei di intervento” nelle scuole e nelle università che denunciano la scuola-caserma fucina di autoritarismo, contestano il nozionismo e l’isolamento rispetto alle questioni politiche cui i professori li vorrebbero costringere. Contribuiscono così a scardinare i meccanismi classisti di accesso all’università e l’inamovibilità dei piani studio, ottengono diritti per i lavoratori/studenti.

Le università sono d’altra parte uno dei luoghi del “nuovo movimento”, quello del ‘77, con il quale il movimento anarchico a Bologna ha un rapporto molto stretto.

Gli eventi del marzo ‘77 a Bologna si situano all’interno di una vasta ondata di lotta che prende forma anche in occupazioni di immobili e in autoriduzioni generalizzate. Il movimento del Settantasette non è solo un movimento di studenti, ma di giovani proletari in genere, di espropriati, disoccupati, sottoccupati, esclusi, emarginati, uomini e donne che non chiedono solo “beni e servizi e informazioni da cui sono esclusi ma una diversa qualità della vita” . In una parola di non garantiti perché, come denunciano, le uniche cose che il governo dei sacrifici garantisce è la “diminuzione dei salari del 25% in un anno […], un aumento di fatto dell’orario di lavoro di un’ora alla settimana […], la mano libera concessa al padronato sulla mobilità”.

A fronte di ciò la parola d’ordine è “più salario meno orario” ovvero estensione dell’occupazione attraverso la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, lotta agli straordinari, sviluppo dei servizi sociali, mense aperte agli studenti e lavoratori, diritto alla casa con forme di lotta come l’occupazione, l’autoriduzione degli affitti, l’apertura serale delle università ai lavoratori.

Gli eventi, dicevamo, sono noti ai più interessati, ma ne riportiamo alcuni qui: a Bologna il movimento manifesta il 7 marzo, dopo che alcuni edifici in zona San Donato e a porta Saragozza erano stati sgomberati. Il corteo è arrabbiato, ci sono danneggiamenti, scontri, occupazioni di case: è una “enorme ronda che spazza la città” e si riappropria di parte dei diciottomila appartamenti vuoti, “della merce, della vita”. L’8 marzo un corteo di cinquecento femministe è caricato violentemente dalla polizia e la sera stessa alla festa dell’Unione donne italiane in piazza Maggiore il servizio d’ordine del Pci si scontra fisicamente con le donne del movimento. La mattina dell’11 marzo cinque studenti di medicina aderenti al movimento sono malmenati dal servizio d’ordine di Comunione e liberazione presso l’Istituto di anatomia. Gruppi di studenti di sinistra accorrono, la polizia carica violentemente. Da lì a poco in via Mascarella un carabiniere spara sei-sette colpi che fulminano Francesco Lorusso, studente e militante di Lotta continua. Radio Alice, trasmette la notizia e la zona universitaria prima e parte del centro poi diventano campi di battaglia. Parte un corteo di quindicimila persone che ha come obiettivi una libreria di Comunione e liberazione e una sede della Democrazia cristiana, ma a farne le spese sono anche gli uffici del “Resto del Carlino” e della Fiat e due commissariati di polizia, mentre scontri con le forze dell’ordine scoppiano un po’ ovunque, in centro fino alla stazione dei treni, anche con uso di armi da fuoco, e decine e decine di vetrine vanno in frantumi.

Il giorno dopo, mentre si tiene un duro corteo nazionale a Roma, anche a Bologna il movimento è tutto in strada, in rotta sempre più evidente con il sindacato e col partito. Polizia e carabinieri provano a espugnare piazza Verdi ma sono respinti. Gli scontri si protraggono, mentre viene saccheggiata un’armeria e sono prelevati un centinaio di fucili e circa cinquanta pistole. All’alba del 13 marzo un enorme dispiegamento di forze dell’ordine con mezzi blindati (tre autoblindo e tre M113) entra nella zona universitaria senza incontrare resistenza se non quella delle barricate. La lacerazione tra Pci e movimento è pressoché totale. Zangheri fa proprio il giudizio per cui il movimento sarebbe in balia di ristretti gruppi di provocatori che agiscono in una logica, quella della violenza, che è al servizio della reazione e quindi lascia mano libera al questore, offrendogli anzi la propria copertura politica; inoltre l’amministrazione nega i funerali pubblici di Lorusso relegandoli in periferia, mentre viene vietato qualsiasi assembramento nel centro storico e si scatena la repressione: in pochi giorni ci sono più di centocinquanta arresti. Diventa così sempre più profondo il fossato tra il movimento e una città rossa solo di vergogna e del sangue di un loro compagno. Il Pci è oramai visto come un partito di polizia, fedele alla “berlinguerra”, Zangheri è bollato come sindaco “eurorepressivo” che reprime per salvare il compromesso storico, criminalizzando migliaia di giovani.

I giorni del convegno contro la repressione di Bologna a settembre – con cinquemila anarchici in corteo che si posizionano tra i due spezzoni dell’autonomia da una parte e di Lotta continua dall’altra – sono uno dei momenti più palesi di incontro tra anarchismo e “nuovo movimento”. Gli anarchici vivono insomma direttamente il ‘77 e spesso lo fanno in prima linea, all’interno di ondata di contestazione che come abbiamo visto affonda alla fine degli anni Sessanta e non si conclude in quell’anno.

Presso i locali del cassero in questa fase ha sede la Federazione Anarchica Bolognese aderente alla FAI ma vi svolgono la loro attività anche tante compagne e compagni non federati, come quelli del gruppo Autogestione, alcuni collettivi studenteschi, il gruppo di Comunismo Libertario ecc. Fra il 1978 e il 1980 il cassero ospita la redazione di “Umanità Nova”, il settimanale anarchico di lingua italiana fondato da Errico Malatesta. Contemporaneamente, grazie a una piccola offset, dal 1977 si stampa la “Questione Sociale” mensile anarchico dell’Emilia-Romagna; poi anche il “Cattivo Pensiero” una delle prime fanzine giovanili. Qui nel periodo 1977-1981 ha sede anche la Aradio Ricerca Aperta, una delle tante radio libere bolognesi. Negli stessi locali nei primi anni ’80 si riuniscono, suonano e stampano tra gli altri i Raf Punk e i Nabat, uno dei primi gruppi italiani di questa corrente artistico-sociale-esistenziale dell’anarchismo contemporaneo che è il punk.

Ma il cassero non è certo l’unico locale anarchico di Bologna. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta operano ancora il vecchio circolo Cafiero, il centro Onagro (in via Avesella 5/b), uno dei primi “caffè letterari” dove più del caffè il vino fa da contorno alla libreria, il centro di documentazione il Picchio, in via Mascarella 24/b (dove oggi sta Modo Infoshop), a pochi metri da dove era stato ammazzato Francesco Lorusso. Il Picchio è il nodo bolognese della cooperativa di distribuzione Punti Rossi che diffonde l’intera produzione del movimento rivoluzionario internazionale con una evidente preminenza per la produzione specificatamente anarchica, a testimonianza del carattere libertario del movimento. Ma ci sono anche la tipografia del Falcone, dove si stampa, fra gli altri, la rivista “Anarchismo”, la copisteria Manolito (di fianco al Picchio) che compone “Umanità Nova” e tante altre pubblicazioni anarchiche e rivoluzionarie, e ancora il circolo la Talpa (in via dei Grifoni, poi divenuto Punkreas) sede-cantina della new wave bolognese, con i Gaz Nevada, i Wind Open e gli Skiantos.

Nella lunga fase successiva al ‘68 il movimento anarchico a Bologna riflette una pluralità di approcci e di interessi tipica del movimento nazionale e che si intreccia con vari approcci e lotte, tra le quali hanno una particolare importanza il femminismo, l’antimilitarismo e l’antifascismo.

-Femminismo: il 1977 è l’anno in cui il femminismo si incontra in maniera più marcata con l’anarchismo. In diversi gruppi anarchici sul territorio nazionale si è da tempo avviato un dibattito sul rapporto tra i sessi e sui molteplici fattori di sfruttamento femminile, grazie all’impegno di militanti donne, le quali, riescono a smuovere un ambiente fino ad allora poco ricettivo verso le loro istanze. Gruppi di donne anarchichesi incontrano più volte in vari luoghi del Paese, tra cui Bologna, per discutere e coordinare lotte concrete su temi quali l’aborto, il problema dell’utilizzo di un linguaggio solo al maschile all’interno dei gruppi e sulla stampa, la necessità – o meno – del separatismo, il superfruttamento vissuto a casa e sul posto di lavoro. Nel marzo 1978 a Carrara il terzo congresso dell’Internazionale di federazioni anarchiche (IFA), partecipato da circa cinquecento persone, esterna pubblicamente il suo sostegno alla rivolta delle donne, indicando come obiettivo per una reale emancipazione l’eliminazione di rapporti autoritari tra i sessi.

-Antimilitarismo. Un importante elemento che caratterizza l’attività anarchica è la lotta al militarismo. Essa assume diverse forme: la partecipazione alle marce antimilitariste con, e senza, i radicali (la prima è la Milano-Vicenza del 1967); ai Proletari in divisa, organizzazione legata a Lotta Continua; all’esperienza del Living theatre; al periodico “Senzapatria” (fondato nel 1978), strumento che dà voce a chi sceglie di non indossare la divisa, subendo così processi e condanne per renitenza alla leva, dinamica che ha una certa incidenza negli anni Ottanta. Proprio all’inizio di quel decennio i libertari sono attivi, tra l’altro, nella lotta contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso.

-Antifascismo. Nel maggio 1972 a Pisa l’anarchico Franco Serantini è brutalmente ucciso dalla polizia proprio mentre è in piazza per opporsi a un comizio missino. Due mesi dopo un altro anarchico, Giovanni Marini, è arrestato con l’accusa di avere ucciso un fascista durante un aggressione sul lungomare di Salerno. La mobilitazione a quel punto scatta imponente, attorno alla parola d’ordine: “difendersi dai fascisti non è reato”. Si formano comitati pro Marini in moltissimi centri del paese che danno vita a un quotidiano e a decine di bollettini, mentre centinaia di militanti seguono da vicino le fasi del processo a Salerno e a Vallo della Lucania. A Bologna i compagni salgono sulla Torre degli Asinelli con megafono e uno striscione “Marini libero”. La campagna di supporto a Marini si inserisce all’interno di una mobilitazione antifascista più ampia: in quegli anni è percepito il pericolo di un colpo di Stato sul modello di quello avvenuto in Grecia nel 1967 o di quello che sarebbe avvenuto nel 1973 in Cile. Si vigila quindi attentamente sulle manovre golpiste per rispondere laddove necessario anche grazie all’esperienza di compagni navigati, già attivi contro il regime fascista e in alcuni casi partecipi della guerra di Spagna.

All’interno di un panorama anarchico nazionale caratterizzato dalla presenza di diverse sigle e aggregazioni (negli anni Sessanta e Settanta abbiamo: Federazione Anarchica Italia-FAI, Gruppi Anarchici Federati-GAF, Gruppi di Iniziativa Anarchica-GIA, a cui si affiancano numerosi gruppi autonomi da organizzazioni nazionali), il circolo anarchico Berneri si definisce, secondo uno statuto condiviso e al quale si è sempre dato seguito, come “sede del movimento anarchico internazionale” nell’ottica di un patrimonio collettivo inalienabile e indivisibile. L’assemblea di gestione è momento di dibattito e di coordinamento dell’attività di gruppi, collettivi ed individualità del movimento anarchico bolognese e ad essa spetta qualsiasi decisione presa a nome del circolo.

Le attività sopra ricordate continuano anche nell’epoca successiva alla fine degli anni Settanta, anche se il quadro sociale cambia, e spesso radicalmente, con gli anni Ottanta. La causa principale dell’arretramento di tutto il movimento di contestazione e anche dei libertari è la repressione: dopo la legislazione d’emergenza del 1979 (leggi Cossiga) e quella antiterrorismo del 1982 ci sono migliaia di prigionieri politici (sedicimila nel 1982), molti dei quali sottoposti a regime speciale, isolamento e tortura.

Cominciano così gli anni “di plastika” o di controrivoluzione secondo la definizione di alcuni “che c’erano”. Le sedi si svuotano e la fuga verso una dimensione individuale è spesso la scelta obbligata per chi è scampato alla repressione dello Stato e all’eroina. È una fase che si chiude, eppure la militanza non scompare del tutto, anche se cambia forma.

Oltre a quella dell’antimilitarismo, un’altra dinamica che vive infatti una fase di sviluppo nel corso degli anni Ottanta è quella contro il nucleare, e più in generale del movimento ambientalista, con cortei e campeggi sul territorio nazionale (anche al Brasimone). Un tema “classico” come quello dell’anticlericalismo, poi, riesce a coagulare nuove ragioni ed energie grazie alla costruzione di una ventina di meeting anticlericali e alla costituzione dell’Associazione per lo sbattezzo che ha in Bologna un motore importante.

Gli anni Ottanta vedono anche il pieno sviluppo del punk cittadino che trova dimora anche nei locali del cassero di Porta S. Stefano e influenza stile, linguaggi e contenuti dell’anarchismo, oltre allo sviluppo del cosiddetto anarcoinsurrezionalismo e infine l’affermarsi degli squat e dei centri sociali, che riattualizzano il tema dell’autogestione e dell’autoproduzione e traghettano le nuove generazioni di libertari fin dentro agli anni Novanta.

Il circolo Berneri rimane in piedi e continua a essere per tutti gli anni Ottanta e Novanta la sede assembleare di un movimento meno vasto di quello degli anni Settanta ma altrettanto variegato. Non è più “l’assalto al cielo”, ma sono molte le iniziative sociali a cui il cassero apre le porte: dai comitati contro il nucleare civile e militare, a quelli contro la guerra (nel 1991 e 2001), dal telefono viola ai progetti di autocostruzione, dal sindacalismo di base – che nasce nel 1992 – ai collettivi femministi, dal teatro al cinema, dai gruppi studenteschi all’organizzazione di alcune delle prime lotte dei migranti (ricordiamo le successive e importanti esperienze dello Scalo internazionale dei migranti di via Casarini prima e del Coordinamento migranti poi), ecc.

Arriviamo così agli anni recenti. Nel 2001 le giornate di Genova segnano un nuova generazione, alcuni si spaventano di fronte all’ennesima dimostrazione della criminalità assassina del potere, altri si avvicinano all’anarchismo. Vecchi e giovani, seppur tra qualche inevitabile incomprensione, danno nuova linfa alle attività del circolo. Come sempre la sede rimane il luogo delle riunioni settimanali, di momenti di controinformazione e socialità (presentazione di libri, proiezioni, dibattiti, aperitivi) e ospita più volte assemblee cittadine di movimento. A metà degli anni duemila nascono il collettivo giovanile Magma, quello degli studenti medi Antigone e il giornale murale “Atemporale Anarchico”, mentre viene rimessa in funzione la serigrafia per stampare magliette e manifesti. Accanto all’iniziativa specifica anarchica continuano ad utilizzare gli spazi del circolo anche gruppi, associazioni, iniziative del movimento inteso in senso più allargato: dal Mutuo Soccorso per il Diritto di Espressione, un’associazione anti-repressione, all’Assemblea Permanente Antifascista prima e poi al Nodo Sociale Antifascista, al gruppo di produzione artistica Kunstbauten.

Il resto è storia d’oggi: collaboriamo da tempo con un’area sociale più ampia che vede gruppi, spazi sociali, associazioni, comitati, coordinamenti ecc. Il circolo è sempre crocevia di esperienze plurali. Oggi molte di noi partecipano a progetti e situazioni, che elenchiamo, dimenticandone sicuramente qualcuna.

1) Nodo Sociale antifascista 2) Associazione di Mutuo Soccorso 3) Moneta Sociale 4) Coro autogestito 5) Camera del lavoro autogestita 6) Spaccio popolare autogestito 7) Collettivo Exarchia 8) Biblioteca aderente alla Rete delle biblioteche e degli archivi anarchici e libertari 9) Sportello di autodifesa digitale 10) Mensa Popolare Autogestita. Con altre situazioni c’è una stretta collaborazione, nel rispetto della libertà e dell’autonomia: pensiamo tra i tanti alle Mujeres libres o al Gruppo informale d’acquisto zapatista.

Mentre i compagni e le compagne partecipano a queste e altre situazioni, il nostro disordinato archivio si accresce. La serigrafia stampa, le fotocopiatrici fanno un volantino dopo l’altro, spesso lo spazio apre per un’assemblea del movimento che sia contro la precarietà, la guerra, la repressione o il fascismo. Alcune-i compagne-i se ne vanno per studio o per lavoro, altri arrivano, magari anche solo per un breve periodo, mentre è ormai consolidato un nucleo di militanti: tutti decisi a metterci del proprio per l’anarchia.

A quarantacinque anni era tempo, insomma, di fare un primo bilancio, rinnovare i locali e dare nuovo spazio alle future attività. Almeno per altri quarantacinque anni!